La serialità è fatta anche di rituali. Quando i personaggi di un autore fanno talmente breccia nei cuori e nei ricordi dei lettori da diventare a tutti gli effetti degli standard, i modi in cui interagiscono fra di loro possono divenire proverbiali.
Che il ménage quotidiano di Wolfe e Goodwin sia scandito da riti, regole e convenzioni – dalle visite nella serra sempre alle undici del mattino e alle quattro del pomeriggio, alla proibizione assoluta di ammettere ospiti femminili nella casa sulla 35° Strada Ovest – è cosa ben nota, ma il colpo da maestro di Stout è stato elevare queste dinamiche a veri e propri motori di trama, momenti che danno avvio o nuovo impulso alla vicenda investigativa di volta in volta narrata. Quante volte un’indagine è stata indirizzata verso la soluzione da un battibecco tra principale e assistente, magari innescato da uno dei molti vezzi wolfiani che non mancano mai di dare sui nervi al fedele collaboratore? Non abbiamo sottomano una statistica sugli incipit dei casi di Wolfe, ma ci ricordiamo di aver assistito spesso a una scena tanto divertente quanto esemplificativa del rapporto della strana coppia: dopo una brillante introduzione come sempre all’insegna dell’ironia, il prode Goodwin ci fa sapere che il conto in banca di Wolfe è sceso sotto il livello di guardia, a causa dell’atavica pigrizia dell’imponente investigatore. In questi passaggi le due anime alla base del loro rapporto si coniugano alla perfezione: da una parte la stanziale immobilità di Wolfe, come sempre esaltata per amor d’iperbole dalle pungenti battute di Goodwin, dall’altra la propensione all’azione di quest’ultimo, che in qualche modo riesce sempre a scardinare la letargia del genio montenegrino. Una forza travolgente si scontra con un oggetto inamovibile, ma nel nostro caso, lungi dal generare un disastro, ci restituisce invece una detective story con tutti i crismi.
Più o meno così ha inizio Abbiamo trasmesso, pubblicato nel 1948 con il titolo originale di And Be a Villain. Durante la registrazione dello show radiofonico più popolare d’America, Cyril Orchard, uno degli ospiti in studio, muore in diretta poco dopo aver bevuto un sorso di Starlite, bevanda che sponsorizza il programma. Naturalmente, la vicenda suscita un grande scalpore e monopolizza i titoli dei quotidiani per molti giorni, ma le indagini ufficiali condotte dalla polizia di New York non decollano. Wolfe non potrebbe essere più indifferente riguardo l’accaduto: certo, è un caso insolito per modalità e implicazioni, ma le papille gustative del raffinato detective mal tollerano la bibita dozzinale che pare essere stata il vettore del veleno fatale, e si sa quanto le suddette papille influenzino spesso e volentieri le sue opinioni. Tuttavia, la questione della scarsa liquidità nelle casse della premiata ditta deve essere affrontata e risolta. Su pungolo di Goodwin, il pachidermico Nero mette in gioco la propria reputazione e verso la corresponsione della consueta astronomica parcella, letteralmente estorce un incarico ai numerosi e importanti soggetti coinvolti nella vicenda e dà inizio alle indagini.
Quel che segue è una trama ricca di trovate geniali, esposte con uno stile impeccabile e, in questo romanzo, particolarmente divertente. La consueta ironia con cui Goodwin narra le avventure del suo principale raggiunge in questo libro vette di umorismo raffinatissimo, e più di una volta si ride di gusto durante la lettura. A nostro giudizio, questo romanzo e Alta Cucina, pubblicato nel 1938, sono le opere in cui la verve umoristica di Rex Stout raggiunge la forma migliore, ma non è questo l’unico tratto apprezzabile del libro. Come quasi sempre accade nei suoi romanzi, Stout si diverte a rompere la regola da lui stesso stabilita, contrapponendo alla misoginia del suo protagonista una serie di donne testarde e determinate, talvolta decise a complicargli la vita. Anche in questo caso, tra i molti personaggi che popolano il libro, spiccano quelli femminili. Madeline Fraser è una conduttrice radiofonica all’apice del successo, spregiudicata e avvezza ad avere attorno a sé uno stuolo di collaboratori che pendono dalle sue labbra; Deborah Koppel, la sua manager e braccio destro, è una figura autoritaria che tiene saldamente in mano le redini del programma; Elinor Vance, autrice e commediografa, è una giovane donna apparentemente timida e remissiva ma in grado di sfoderare una grinta insospettabile. A contraltare di questo agguerrito gineceo, i personaggi maschili appaiono invece più opachi, convenzionali e stereotipati, come Bill Meadows, attore radiofonico che sembra limitarsi a far parte, senza specifiche qualità, della cricca della Fraser. Il cast della trasmissione radiofonica incide sulla trama come un tutt’uno, grazie ai complessi rapporti personali che intercorrono tra i suoi membri, e che Wolfe dovrà portare alla luce poco alla volta per venire a capo dell’intricata vicenda.
Al progredire dell’indagine, il giallo si evolve e si stratifica in direzioni inaspettate, pur mantenendo una solida organicità narrativa. L’omicidio in diretta radiofonica di Cyril Orchard è solo il primo tassello di un intricato piano criminale su cui aleggia l’ombra di un pericoloso nemico. Come Holmes aveva la sua nemesi in Moriarty, Wolfe deve affrontare il genio occulto del crimine newyorkese, una figura minacciosa e sfuggente che fa il suo esordio proprio in questo romanzo: Arnold Zeck. Il senso di minaccia che accompagna la sua telefonata a Wolfe dona una nuova dimensione al romanzo, più drammatica e sorprendente, che Stout modula descrivendo con grande maestria le reazioni di Goodwin e Wolfe. Il primo rimane spiazzato, una reazione insolita per un investigatore navigato come lui, mentre il secondo lascia trapelare quel senso di rispetto e timore che in genere gli eroi letterari riservano agli avversari più micidiali. Timore, si badi bene, non per la propria incolumità, ma per lo sforzo che si renderà necessario affrontare per abbattere un nemico di tale caratura. Ed è difficile immaginare una miglior summa del pensiero wolfiano.
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