“Ad Alex piace da impazzire. È quasi un’ora che va avanti, esita, esce, torna indietro. Fa altre prove. Parrucche e toupet. Potrebbe passare interi pomeriggi lì dentro.”
L’incipit di Alex (Pierre Lemaitre, ed. Mondadori 2011) farebbe pensare alle spensierate vicende di una vivace giovane donna parigina. Invece, nel girar pagina, la faccenda prende un’infelice piega: Alex s’accorge di essere seguita da un uomo sconosciuto. Realizza d’averlo già visto sul metrò, e notato qualche giorno prima davanti casa sua. In quella le piomba addosso una cascata di sensazioni, passando per “sarà un ammiratore insistente” “ci prova” “non essere sciocca”, per poi sbirciare la strada e scoprire che l’uomo è sparito. Respiro profondo: “mi sono sbagliata”, “uno scherzo della mia testa un po’ bislacca.” Decidendo così all’istante, soprattutto dopo aver realizzato d’avere il frigo vuoto, di cenare in un ristorante. Una mezza bottiglia di vino d’Alsazia, le fuggevoli occhiate ad un uomo di fronte a lei, un quarantenne non male – così lo valuta – un caffè a concludere la modesta cena: et voilà, il buonumore rifà capolino.
Siamo al momento della prima svolta del racconto. Alex si risolve a fare quattro passi, evitando di proposito l’autobus. È questione di pochi metri: un furgone bianco, parcheggiato di sghimbescio, ostruisce il passaggio sul marciapiede. Di botto la colpisce un violento pugno alle scapole. Subito dopo la guancia tocca il pianale freddo del furgone. Poi la sua voce, lontana e terribile, a sussurrare “perché io?” “non voglio morire.”
Da qui in avanti Lemaitre tende una corda di fine e solido acciaio sulla quale farà scorrere tutta la storia. Anzi, le storie. Il romanzo ne contiene altre, apparentemente diverse. Chi è l’uomo che tiene Alex prigioniera in una gabbia appesa al soffitto? Per quale motivo? Quale ruolo hanno i personaggi che via via entrano ed escono di scena?
Interrogativi ai quali è chiamata a trovare risposte una figura nota agli estimatori del giallista francese: il commissario Camille Verhoven. Sarà lui ad occuparsi di Alex, a sfogliare la sua vita con la nervosa meticolosità che lo contraddistingue. Come la sua statura: un metro e quarantacinque. Peculiarità che non gli impedisce di scalare le vette dell’animo umano, e precipitarsi nei suoi abissi. Il commissario attraverserà l’esistenza di Alex, dapprima nel cercare una donna rapita. Nel dopo la donna vittima di un destino maligno, complice dell’umana spietatezza. Il romanzo è un thriller coinvolgente, sconvolgente, terribile. Senza respiro. Lemaitre colpisce e toglie il fiato. In un continuo loop di brutalità subite e inferte. Di furore inspiegabile. E di magistrali coup de théâtre, finale compreso. Le scosse fisiche e psicologiche, costante del libro, ne fanno un capolavoro di genere. Che mai si concede alla noia, o indugia nell’auto compiacimento.
Astenersi animi romantici? neanche poi tanto: Alex è da divorare in tutta la sua atrocità. E velata tenerezza. Due opposti che l’autore maneggia con estrema cautela e padronanza. Senza mai porsi sopra o sotto le righe della tensione sospesa tra testa e cuore di chi legge. Aiutato anche dalla ottima traduzione di Stefania Ricciardi.
Ci sarebbe da dire molto altro, seriamente rischiando però di guastare la sorpresa a chi ancora volesse accostarsi al romanzo.
Enfin, molte di noi sono state o sono Alex. Alcune ce l’hanno fatta, altre no. La penna di Lemaitre ci spinge a conoscere una di queste donne fin nella profondità delle viscere. Svelandola nella determinazione di portare a termine una missione: mettere in gioco la sua vita.
E punire chi, in altro tempo e luogo, la costrinse a diventare Alex.
Recensione di Gioia Verni.
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