Billy Summers, l’ultimo romanzo di Stephen King, si inserisce in un recente filone bibliografico (proprio dell’Autore stesso), all’interno del quale sono evidenti alcune peculiarità stilistiche, tematiche e di tono; tali peculiarità ad avviso di chi scrive possono presentare anche conseguenze a carattere critico.
Anzitutto la trama: Billy Summers è un veterano e un sicario, che riceve un incarico avente ad oggetto l’eliminazione di un tale che, forse, merita quel che gli sta per accadere. Questa è per Billy l’ultima missione. Mentre prepara le operazioni finalizzate all’uccisione, Summers assume la falsa identità di uno scrittore esordiente; Billy è una persona colta, ama Faulkner, Zola e Dickens. Eppure finge di non esserlo, presentandosi di solito come un lettore di fumetti. Durante questa bizzarra esperienza, incontra due donne (una femme fatale e una giovane ragazza in difficoltà emotiva, Alice) e soprattutto scrive una sorta di autobiografia, scoprendo così di essere (forse) un autore capace; i fatti del romanzo e quelli della biografia, non a caso, arriveranno a coincidere. Il tutto avviene durante 545 pagine di narrazione, la maggior parte delle quali superflua. Billy Summers ricorda, per certi versi, il vero Stephen King, che legge i grandi classici e anche i fumetti; scrive romanzi, ma non li ritiene abbastanza validi.
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È ovvio che se non si trattasse di uno scrittore particolarmente significativo per la letteratura mondiale, non si starebbe neanche qui a evidenziare criticità e problemi, anzi.
Tuttavia, dal momento che King ha avuto e conserva tuttora un ruolo prezioso nel forgiare immaginari contemporanei, è anche bene allontanare il suo profilo da tutto ciò che possa nuocere a un legendarium che, nel complesso, sarebbe davvero un peccato sciupare; c’è una letteratura composta dallo scrittore statunitense che, pur negli alti e bassi, si apre con Carrie (1974) e si chiude con Doctor Sleep (2013) e Revival (2015).
Non si dubita della maturità dell’Autore; tuttavia negli ultimi anni egli, con una sorprendente inversione di rotta, sembra inconsciamente volersi mettere in discussione (il che è imbarazzante, oltre che ingiusto). Come se appunto fosse caduto vittima di doverizzazioni tipiche di un giovane insicuro, come se i suoi filoni non fossero ritenuti validi da presunte voci critiche. Voci critiche che peraltro ci sono state, e forti, nei decenni (chi parlava di King come maestro della prosa post-alfabetizzata; lo stesso Autore che si ascriveva ironicamente al mercato delle saponette oppure a McDonald’s, e non alla vera letteratura); lo scrittore statunitense ha sempre saggiamente ignorato queste critiche. Le ha ignorate forte non solo del suo pubblico, ma anche della fiducia che egli riponeva nella propria capacità di creare: leggende, creature, mostri, realismo fantastico, sogni, origini dell’universo, dimensioni parallele, magia, oscurità. Questo è senz’altro il suo dono, il suo punto di forza, e lo rende forte e attrattivo agli occhi dei giovani, del cinema, dell’immaginario tanto popolare quanto colto (si pensi solo al folklore messo in scena in numerosi suoi romanzi). La sua debolezza, se si vuole essere onesti, è forse la sua sensibilità, nel senso che tale caratteristica si manifesta spesso nel suo stile, rendendolo melenso, e nella struttura delle opere, affette da prolissità, quando non anche grafomania. In alcuni testi (La storia di Lisey, come anche nelle storie dedicate a Holly Gibney), Stephen King dovrebbe parlare di rapporti umani, ma di fatto il tono è unidirezionale e anticipatamente fluido, il che non ha senso (dal momento che non vi sono tematiche di genere). La nostalgia e il rimpianto sono poi presenti in It e in altre importanti opere dell’Autore, e come tali possono essere ritenuti punti cardinali della poetica letteraria della sua scrittura: tale poetica costituisce la modalità attraverso la quale egli decide di mettere in scena la sua immaginazione (che rimanda, come detto, al sovrannaturale). A partire da Mr. Mercedes (2014), passando per i discutibili The outsider (2018), L’istituto (2019), Se scorre il sangue (2020), Il bazar dei brutti sogni (2015), il decente Later (2021), fino a questo ultimo Billy Summers, Stephen King si è avvicinato a tematiche apparentemente simili al suo essere, ma che in realtà sono molto distanti dalle sue categorie letterarie. Il noir non ha nulla a che spartire con Stephen King, benché egli sia ultimamente convinto di parlare di crimini, tessuto sociale deviato, “intreccio” dal carattere thriller (giallo secondo la dicitura italiana) o di suspense. Anzi si potrebbe dire che non vi è suspense nelle opere di King, o meglio: vi è una suspense data da un’alta qualità letteraria, mentre normalmente la suspense comunemente intesa (da Agatha Christie agli odierni Michael Connelly e Jo Nesbø) è normalmente costruita ad hoc, per finalità commerciali o anche solo di mero sollazzo.
Il nostro Autore, dunque, scrive letteratura dal taglio logico e metafisico, ma non è accettato dalla comunità letteraria, proprio perché è troppo brillante e creativo; le mitologie, infatti, sono tutt’altro che ben accette dai vari Harold Bloom et similia. Come noto, la critica letteraria è legata al verismo, a stili seccamente giornalistici o invero accademici, arzigogolati, da scrittura creativa. Se lo scrittore è vivo, poi, bisogna tenersi alla larga da lui; al massimo ci si avvicina – tra cautela e curiosità meschina – se scrive di famiglia, erotismo e pensieri involuti, tra il tortuoso e l’incestuoso, imitando (male) gli ebrei newyorkesi.
Orbene King si orienta verso il crime, come a dire: la narrativa non mi accetta, passo al piano B.
Peccato che non sia affatto il campo di cui si stia parlando, perché l’arte del pulp (ovverosia: fantascienza, fantasy, horror, rosa, avventura, bizzarro, weird, amazing, commedia, paradosso, eccetera) cui egli è evidentemente legato si trova in un altro ambito, se vogliamo superiore, a quello della narrativa e del suo sub-genere giallo. La narrativa e il giallo si sono sempre dati battaglia, ignorando che altrove si stavano raggiungendo risultati di stile eccellenti, probabilmente anche superiori, quantomeno in termini di speculazione. Bradbury, Matheson, Dick, Clarke, Asimov, Tolkien, Lewis, Carroll, gli odierni Rowling, Pullman, Stine, Stephen King e altri hanno creato universi e non sembra affatto opportuno tirarsi indietro dopo aver raggiunto tali e tanti risultati.
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