Esiste, nella produzione di ogni autore che si rispetti, un “romanzo-pecora-nera”.
Una storia che nasce storta, ma non per questo sbagliata.
La trama cresce su binari sbilenchi, che deviano leggermente da quelli che sono i cliché tipici della penna maestra, prende direzioni oblique, seguendo vettori che si addentrano in boschi oscuri.
Opere che, se non fosse per il nome stampato a grandi lettere in copertina, disconoscerebbero il loro autore, rinnegando il proprio padre come il figliol prodigo della parabola.
Black City – c’era una volta la fine del mondo, appartiene a questa categoria di “figli bastardi di Dioniso” (tanto per citare il gruppo dei tre trentini).
Un romanzo introvabile nelle librerie, che si può comprare a pochi euro in versione e-book.
Una storia che già dall’immagine stampigliata in copertina (una ragazza quanto mai arrapante con un filo di sangue che le esce dalla bocca. Sullo sfondo, un fungo atomico che non fa presagire nulla di buono) fa comprendere al lettore che quella che sta per iniziare non è la classica storia di Gischler (qui una nostra intervista).
Dimenticate la sottile ironia e la magistrale tecnica narrativa di “Notte di sangue a Coyote Crossing” o “Anche i poeti uccidono“.
Dimenticate anche le scene scottanti e quantomai “cinematografiche” de “La gabbia delle scimmie”.
Dimenticate, insomma, tutto ciò che ha fatto la fortuna dello Zio Victor.
Qui siamo di fronte alla quintessenza dello splatter.
Un romanzo che, a voler essere arditi, ricorda leggermente le avventure avventurose di Willard Price.
Ricordate? Quel simpatico scrittore che, qualcosa come un fantastilione di anni fa, partorì i vari “Verso il nido dell’anaconda“, “Verso il buoi dei grandi abissi” eccetera eccetera eccetera (la saga vanta qualcosa come una ventina di titoli, e tutti iniziano con “Verso il…”).
Ma torniamo a noi.
Un mondo futuribile, dove la crisi economica e le guerre atomiche l’hanno fatta da padrone, facendo sprofondare l’umanità nell’anarchia più totale.
Un protagonista che è l’antieroe per eccellenza, quel Mortimer Tate che, vissuto per anni nella beata solitudine di una grotta, decide di punto in bianco (e senza una vera ragione che non fosse quella di permettere a Gischler di scrivere un romanzo) di immergersi nella melma di una strana America avariata per cercare e salvare (non si sa bene da chi, né da cosa) l’ex moglie.
Lungo la strada metterà su una strana compagnia (strano, vero? Non l’avremmo mai detto, specialmente dopo aver letto “Il signore degli anelli” e “La torre nera” di King) formata da un pistolero che si crede Buffalo Bill e una ragazzina di nome Sheila che si crogiola nel sogno di diventare una prostituta.
Assieme affronteranno cannibali, gruppi di vestali femministe, uomini d’affari senza scrupoli, ladroni violenti buoni solo a menare le mani.
Un romanzo che si beve in fretta, ed in fretta si dimentica anche.
Una parentesi splatter di un Gischler che ha voluto giocare un po’, prendersi una vacanza dal ritmo incalzante e sincopato delle “Opere maestre” per ammiccare ad un genere che non è il suo.
Una storia che si ama come si ama un figlio un po’stupido, ma che fa il suo meglio per prendere sei in matematica.
Questo è Black City.
Nulla di che, un romanzetto simpatico.
Forse anche per questo costa così poco.
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