“… gli orrori che abitavano il suo respiro l’avrebbero raggiunto ovunque. Ed erano suoi, esclusivamente. Non li poteva condividere né spiegare, perché agli occhi degli altri i suoi demoni sarebbero apparsi solo sciocchezze. Ombre spalmate sul muro dell’inconscio. Inutile illudersi, nessuno poteva capire l’angoscia patologica se non l’aveva mai provata veramente. Era come tentare di spiegare il mal di denti a una mosca.”
Per fare un buon noir, e in questo caso, un tipico noir, occorrono quattro elementi base: l’ambientazione, una storia forte, convincente e nera, un ritmo narrativo incalzante, e soprattutto un personaggio principale completo, complesso e preferibilmente antieroe. Queste condizioni essenziali, ben presenti, ben curate e soprattutto, molto ben amalgamate, sono la forza di Bologna destinazione notte, un ottimo noir che mi sento di consigliare a chi ama le storie crude e forti.
L’azione si svolge a Bologna, ma non è la solita o insolita Bologna. Stavolta è una città sfacciatamente notturna vissuta da un tassista che riesce ad appiccicarla sulla pelle del lettore, senza scendere mai in eccessi toponomastici, in descrizioni abbondanti, ammirazioni inutili e fioriture varie. Una Bologna terrena e notturna. Ricca di fascino, contraddizioni, misteri, crimini, insidie, e con una grande umanità nascosta, pulita e purificata da una pioggia costante per tutto l’intero romanzo. È una città torbida questa Bologna di Roberto Carboni. È anche disperata e gelida nell’animo, ma per fortuna piove e tutto l’acqua depura per restituircela al mattino opulenta e rassicurante. “Fuori sembrava la fine del mondo. Via Rizzoli, Strada Maggiore e Via Ugo Bassi erano deserte a perdita d’occhio. Le Due Torri venivano mozzate dalla pioggia che scrosciava gelata, e il vento gridava come un esercito di fantasmi”. (A proposito gradirei ricevere la cittadinanza onoraria Bolognese, per quanti romanzi ho letto ambientati in questa città).
La storia è forte, avvincente, inquietante e cattura subito: “A Borgo Panigale, sui gradini di un negozio di giocattoli, di fronte al centro commerciale, fu rinvenuto il primo piede. Era stato gettato contro la vetrina durante la notte, attraverso le maglie della saracinesca abbassata. La negoziante cadde a terra priva di sensi, appena lo vide. La soccorse un giovane che passava di lì per andare a lavoro; il ragazzo notò l’arto tranciato e per poco non svenne pure lui. Gridò. Accorsero persone. Qualcuno chiamò il 113. Presto si radunò una folla di passanti e negozianti della zona. Un vigile urbano che abitava nello stesso palazzo, dopo un iniziale sbigottimento tentò di mettere ordine, ma il caos era ormai ingestibile per un uomo solo, e la folla continuava a crescere”. Poi è rinvenuto un altro piede. Un cadavere. Il mistero s’infittisce, ma è chiaro che c’è in circolazione un serial killer. Uno di quelli atipici e spietati. I piedi rinvenuti mi ricordano subito il romanzo di Fred Vargas “Un luogo incerto” con il suo bellissimo incipit, ma francamente l’ho mollato a pagina 130, perché il calo di tensione che oramai si trascinava da diverse pagine mi era divenuto intollerabile. Beh! Con Carboni tutto questo non succede. La storia procede senza alcuna diminuzione del ritmo narrativo fino all’epilogo concitato e imprevedibile. Sempre narrata con equilibrio, senza contraddizioni, con una scrittura fluente, felice a tratti adrenalinica, che mai scende nello splatter o nell’autentico horror, pur restandone sempre al confine. Una scrittura che sa strizzare l’occhio a qualche maestro americano, ma che ben mantiene la sua personalità italica.
E poi c’è lui, Annibale Dori, il nostro antieroe. Solo, disilluso, grande appassionato di jazz, abitudinario dal gomito alto, e tassista di professione. “…guidava con calma, come ogni notte da vent’anni a quella parte. Lui caricava tutti, senza distinzione, anche quelli che in gergo venivano chiamati i morti. Così l’avevano battezzato Caronte, gli altri tassisti della notte. Ubriachi, tossici, derelitti, pestati a sangue o accoltellati. Non lasciava a piedi nessuno. Pure chi si era vomitato addosso, e non era certo un bello spettacolo da tenersi vicino. Seduti sul sedile posteriore, i clienti erano sfingi nella penombra, misteriose creature estratte da quel sacchetto di stoffa scura che era la notte. Imprevedibili. Criminali, capitava, ma più spesso poveri cristi o animi festaioli che avevano dato troppo dentro. Meglio seduti su un taxi, piuttosto che alla guida ubriachi o sfatti”. Annibale ha una storia d’amore alle spalle finita malamente dopo sei anni e non cerca niente. Solo qualche buon amico col quale bere del whisky e sentire della buona musica in silenzio. E il silenzio, oramai diventato il leitmotiv della sua vita è squarciato da lei, che entrata di notte nel suo taxi, che vuole essere portata in un locale, uno qualsiasi, ancora aperto, e che non sia un postaccio perché non ha voglia di ritornare a casa. Entrare nel taxi sarà come entrare nella vita di Annibale. E lei saprà sconvolgerla come si deve, in tutti i modi e in tutti i sensi. È la femme fatale quella. “ Ammirarla era la parola giusta. Aveva una trentina d’anni e lunghi capelli mossi, tra il biondo e il rosso. Occhi verde smeraldo, un po’ arrossati forse, per via della stanchezza, ma molto decisi. Un viso ovale dalla pelle bianchissima spruzzato di lentiggini e il naso curvato in su. Le labbra, rosa e carnose, meravigliosamente disegnate, splendevano di luce propria”. Sì! Gli sconvolgerà la vita in tutti i sensi. In tutti i modi, fino a improvvisarlo detective, fino a fargli rischiare la vita, fino a fargli cogliere il frutto proibito dell’amore. Annibale Dori un personaggio completo. Ben caratterizzato. Umano.
Un gran bel romanzo questo di Roberto Carboni. Intenso avvincente, pieno di colori, olfattivo e tattile, dove suspense, sentimento, violenza e amicizia dirigono con ritmo il susseguirsi di eventi aberranti fino all’adrenalinico epilogo finale, sempre e sotto la pioggia battente di una Bologna sconosciuta al ritmo di jazz. Col jazz nel sangue.
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