La recensione con cui apriamo questa settimana al ThrillerCafé è dedicata a Cella 211, il romanzo di Francisco Pérez Gandul (che abbiamo intervistato qualche settimana fa) giunto in Spagna già a 5 edizioni e da cui è stato tratto l‘omonimo film rivelazione di Daniel Monzón. Ecco il mio modesto parere.
Titolo: Cella 211
Autore: Francisco Pérez Gandul
Editore: Marsilio
Anno di pubblicazione: 2010
Pagine: 242
Traduttore: Fabio Cremonesi
Trama in sintesi:
La storia si svolge all’interno di un carcere di massima sicurezza, dove il giovane Juan Oliver, appena assunto come secondino si presenta al lavoro con un giorno d’anticipo. Visitando il braccio in cui sono detenuti i criminali più pericolosi ha un mancamento. Le guardie, per rianimarlo, lo stendono temporaneamente sulla brandina di una cella vuota: la 211. Ma non hanno il tempo di attendere che Juan si riprenda: Malamadre, il capo indiscusso dei carcerati più pericolosi, è riuscito ad assumere il controllo del braccio e a scatenare una rivolta. Alle guardie non resta che scappare e mettersi in salvo, lasciando l’ignaro Juan al proprio destino in mezzo ai ribelli…
Narrazione a tre voci, due al passato e una al presente (scelta che poi capirete non casuale), Cella 211 si presenta fin dall’inizio come una sorta di cristallo infranto da ricostruire, pezzo dopo pezzo e con crescente trepidazione a mano a mano che i protagonisti forniscono i loro frammenti di storia, non sempre collimanti e riflettenti la luce in maniera diversa. Timbri diversissimi che il lettore riesce a riconoscere con facilità, Juan, Malamadre e il Canas raccontano una vicenda realistica, pervasa da una parte da grande umanità e dall’altra da violenza e tensione che ruotano soprattutto attorno al primo dei tre narratori, Juan Oliver, classico personaggio che si trova nel posto sbagliato al momento sbagliato ma che reagisce alla situazione in maniera inattesa dapprima e disturbante poi, rivelandosi emblema di una natura umana che in condizioni di stress e dolore psicologico regredisce sul piano razionale per lasciare libero sfogo a quello viscerale. Linguaggio crudo e diretto, oltre che volutamente disgregato (contrassegnato dall’assenza di punti e da divagazioni continue) quando parla Malamadre; ambientazione scomoda; trama contraddistinta da colpi di scena ben preparati e suspense che resta sempre su buoni livelli; protagonisti credibili e caratterizzati con sicura bravura. Cella 211 è un romanzo solido e dal ritmo serrato: in definitiva, per me, una lettura consigliata.
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