Come ben saprete da Cella 211, il libro di Francisco Perez Gandul (che abbiamo intervistato qualche giorno fa), è stato tratto un omonimo film. Oggi su Thrillercafe potete leggere il parere a riguardo di Luca Marchetti.
Si potrebbe dire che il 2010 è l’anno dei prison-movie. Dopo l’arrivo del meraviglioso “Il profeta” ( candidato francese all’Oscar per il film straniero) ecco uscire nella nostre sale anche Cella 211, pellicola spagnola che ha sbancatoi botteghini e sbaragliato una concorrenza agguerrita agli ultimi Goya (gli Oscar per i film spagnoli). Partiamo subito con il dire che “Cella 211” condivide con il film francese solo l’ambientazione carceraria. Se la pellicola di Audiard, infatti, è una riflessione disperata (e anche poetica) sulla condizione dell’uomo e sulla sua sopravvivenza nella società attuale (caratteristica che ne accresce senza dubbi la qualità artistica ma lo rende anche di difficile “digestione”), il film spagnolo invece punta più sull’azione e sull’intrattenimento (sia chiaro, non è un difetto). La pellicola, infatti, spinge da già subito sull’acceleratore confezionando un prodotto che non subisce mai nessun calo in due ore di durata. Il maggior merito del regista Monzon, però, è quello di compiere, molto intelligentemente, anche scelte dure e coraggiose, non usando mai una violenza fine a se stessa. Il dosarla con cura anzi ha il risultato di darle un effettivo peso e significato nel momento in cui viene messa in scena. Altro pregio del film, il migliore dal mio punto di vista, è il cast che è stato messo in campo. Ogni attore funziona, specie la coppia di protagonisti che si integra benissimo. Da un lato infatti, abbiamo Alberto Ammann, giovane esordiente, che nel ruolo del ragazzo finito al posto sbagliato nel momento sbagliato non risulta mai inappropriato o fuori parte, anche nei flashback patinati (i momenti più deboli di tutta la pellicola). Dall’altro lato invece c’è Luis Tosar (intravisto in altre pellicole come “Miami Vice” e “I lunedì al sole”) che in un ruolo che si presta a facili isterismi ma che riesce a gestire benissimo (anzi, riesce a tirare fuori un lato umano sensibile ed interessante). In più dimostra un carisma notevole, che gli fa tenere in piedi il film da solo. In poche parole, anche se pieno di limiti (i mezzi con cui è stato realizzato sono quello che sono) Cella 211 si rivela un prodotto confezionato bene, specie per un montaggio efficace. Dimostra poi il grado di evoluzione che ha raggiunto l’industria cinematografica spagnola che, oltre a non essere identificabile solo Almodovar, riesce a rendere commerciale un film potente e non facile (in Italia, ad esempio, di carcere si parla pochissimo e male, usandolo più come sfondo per altri temi). Di sicuro un prodotto del genere verrà subito saccheggiato dal cinema americano per un inevitabile remake, magari con Mickey Rourke nella parte del protagonista (se succede ricordate dove l’avete letto, mi raccomando).
Luca Marchetti
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