“Venite pure avanti / voi con il naso corto” cantava Francesco Guccini in “Cyrano”, uno dei suoi pezzi più sanguigni e più celebri. Nella sua seconda vita, da romanziere, il Maestrone ha cambiato mezzo espressivo, ma non ha perso il gusto di una sincerità che sa farsi rispettare.
E anche in “Quel che sa Minosse”, scritto a quattro mani con Loriano Macchiavelli e recentemente pubblicato da Giunti, arriva il momento in cui il protagonista Maurizio, scrittore, sembra pensare “vi infilerò la penna ben dentro al vostro orgoglio”.
Il tono però non è arrabbiato, come in “Cyrano”, ma scanzonato. “Quel che sa Minosse”, più di ogni altra cosa, è forse una storia di paese. Racconta, con cura e leggerezza, l’inquietudine che assale una coppia appena trasferitasi dalla città in un’antica casa, con torre, a lungo disabitata, in campagna. Anche nelle pagine più misteriose però, traspare un certo senso di divertimento, si accende una scintilla d’ironia.
E, in fondo, Guccini lo cantava anche in uno dei suoi pezzi più celebri e dissacranti come “L’avvelenata”: “E io che ho sempre detto che era un gioco / saper usare o no d’un certo metro”. Ecco, Maurizio, alle prime stranezze, ai primi rumori improvvisi notturni, sembra fermamente intenzionato a usare proprio “quel certo metro”: a cercare una spiegazione razionale, che non ceda alla superstizione.
Pagina dopo pagina però, una voce di paese si affianca a un piccolo fatto inspiegabile, e la storia di paese sembra farsi storia di fantasmi. I misteri non mancano, e per alcuni sembra proprio difficile trovare una spiegazione razionale. Marta, in particolare, moglie di Maurizio, è sempre più inquieta, fatica a dormire.
Chi la sa più lunga di tutti però, come ci svela il titolo e ci confermerà anche un sorprendente finale, è Minosse. Minosse è un gatto soriano “dal pelame folto e lustro e gli occhi vivaci, uno marron scuro e l’altro verdastro” e lungo tutto il romanzo dimostra di essere dotato di un grande intuito, mettendo in un certo senso anche Maurizio sulla strada giusta, coi comportamenti dettati dal suo istinto felino.
Non si tratta di un gatto detective, alla maniera di Koko, protagonista dei romanzi di Lilian Jackson Braun (a partire dal suo esordio “Il gatto che leggeva alla rovescia”, datato 1966 e fino a “Il gatto che aveva sessanta vibrisse”, uscito nel 2007). Minosse pare piuttosto un gatto informato sui fatti, che concede la sua simpatia e un piccolo aiuto a chi, a suo insindacabile giudizio, lo merita.
Si potrebbe perfino dire che, come il suo dantesco omonimo, anche questo Minosse “giudica e manda secondo ch’avvinghia” la sua folta coda. Non offre indicazioni, non va alla ricerca di indizi per suggerire una soluzione: piuttosto intuisce, interpreta, allude.
E mentre Minosse manovra sapientemente la sua folta coda, questa storia di fantasmi sembra trasformarsi, pagina dopo pagina, in qualcosa di molto meno misterioso e di molto più umano, altro che soprannaturale. La superstizione lascia spazio alla scoperta, la paura dell’ignoto a una certa indignazione verso l’avidità.
In fondo però, lo dicevamo, è un racconto di paese. E nei paesi tutti finiscono per conoscersi, citando Ligabue e il suo “Radiofreccia”, per nome, cognome e soprannome. E allora una soluzione, un accomodamento si trova, o perlomeno si cerca. Proprio quando tutto sembra chiarito però, è ancora Minosse, sornione, ad ammiccare verso il lettore: come a ricordare che, proprio quando tutto sembra chiaro, vale la pena di chiedersi se ci sia ancora qualcosa da scoprire.
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