Diciamo le cose come stanno, non credo di passare per quello che urla alla luna se dico che lo spirito con cui ci accingiamo a leggere un romanzo non è lo stesso che riserviamo a un racconto. Per quest’ultimo si ha la sensazione più o meno latente che il viaggio debba per forza presentare insidie, trappole, che si arrivi al traguardo ineluttabilmente non proprio soddisfatti. Non che il romanzo sia un percorso idilliaco, tutt’altro, ma siamo comunque disposti ad accordargli qualche pecca. Se il tragitto è lungo, possiamo trovare normale e logica una partenza tranquilla, una fermata qua e là per riprendere fiato, chiudere un occhio persino su qualche piccola, innocua disattenzione. Se è breve, nel caso del racconto, inconsciamente o meno si parte già titubanti, si è poco inclini ad ammettere lacune e a concedere tutta questa confidenza. E se alla fine si rimane con l’amaro in bocca, è logico pensare “Te l’avevo detto, no?”
Ebbene, non ho l’ardire di ritenere l’antologia che sto per presentarvi l’eccezione che conferma la regola, fatto sta che non ha assolutamente niente da invidiare a un appassionante romanzo. Cinque blues per la banda Monterossi è un piccolo gioiello, i racconti sono avvincenti, ironici, la lettura è piacere allo stato puro come sempre quando a scrivere è Alessandro Robecchi e, almeno per quanto mi riguarda, non ho mai percepito quel fastidioso formicolio che alla fine fa sbottare “lo sapevo che manca qualcosa, d’altronde non è un romanzo”.
Cinque blues per la banda Monterossi esce a dieci anni esatti di distanza dall’esordio del protagonista Carlo Monterossi, autore televisivo disilluso, stufo di sfornare progetti che immancabilmente finiscono a ingrossare le fila dell’ormai dilagante tv spazzatura. Tra una peripezia più o meno fortuita e l’altra, il detective “per caso” è contornato da comprimari altrettanto fuori dagli schemi ma allo stesso tempo più che mai verosimili. Su tutti Oscar Falcone, bizzarro co-investigatore dalle imprevedibili conoscenze e dai misteriosi agganci.
A questa antologia non manca proprio nulla, i racconti sono meccanismi ben oliati, ineccepibilmente costruiti mediante la giusta dose di suspense e umorismo, e non si avverte la benché minima differenza con uno dei romanzi che vede protagonista la Monterossi & C.. È proprio l’ironia malinconica, marchio di fabbrica di quel genio di Alessandro Robecchi, a rendere umani i personaggi, e ci dovrebbe far capire che spesso, troppo focalizzati sul nostro piccolo orticello di vita, ce la dimentichiamo come compagna per affrontare le nostre vicissitudini quotidiane.
Il tavolo, Killer (gita in Brianza), Doppio misto, Piccola suite borghese e Occhi sono le cinque storie, una più accattivante dell’altra, che compongono la raccolta. Il finale di una di esse serba anche un’ulteriore, piccola sorpresa: un brevissimo cameo della protagonista appartenente alla serie di un popolare giallista italiano, volto noto anche qui a Thriller Café. Non svelo altro per non rovinare la lettura, ma chissà se la cosa può essere foriera di un’intrigante collaborazione.
Per uno come il sottoscritto che legge Stephen King dall’età di 12 anni, la citazione iniziale, che non conoscevo, è metaforicamente perfetta, e ho trovato così illuminante la prefazione L’arte deplorevole del racconto, che a mio avviso, come si suol dire, già da sola vale il prezzo del biglietto.
Ce lo vedo, Carlo Monterossi, davanti a una finestra del suo bell’appartamento, in mano un bicchiere di Oban, in sottofondo una ballata struggente dell’immancabile Bob Dylan, lo sguardo perso nell’orizzonte della sua Milano, magari al cospetto di un tramonto della stessa sfumatura del suo whiskey preferito, che con un accenno di ghigno malinconico sulle labbra mormora: “Il racconto è uno sporco lavoro, qualcuno deve pur farlo“. Alessandro Robecchi lo fa alla grande.
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- Autore: Alessandro Robecchi
Articolo protocollato da Damiano Del Dotto
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