Recentemente su Thriller Cafe sono stati proposti racconti di autori noti: c’è stato uno scritto di McCall Smith, poi un altro di H.R.F. Keating. Oggi ce n’è uno di uno scrittore più scalcagnato: il sottoscritto. Visto che già era presente in rete, ho deciso di pubblicare anche qui una fortunata storia breve che mi fruttò la mia prima vittoria in un concorso letterario per gialli, una cena al tavolo di Paco Ignacio Taibo II e un librettino col mio nome. S’intitola “… E due!”, e questa ne è la versione rivista e ammodernata.
Buona lettura per chi vorrà.
***
… E due!
Ernesto schiacciò la sesta sigaretta nel posacenere, gettò uno sguardo pessimista verso l’ingresso del Kissing Devil e scosse la testa.
In quella Punto modello congelatore non avrebbe resistito a lungo, con una sola Marlboro ancora nel pacchetto, ma Cristo!, da lì non poteva proprio muoversi: rischiava di perdere il suo uomo e di aver sprecato una nottata intera per niente. Doveva resistere.
Bestemmiando la Madonna cominciò a smanettare con la radio: gli arrivarono lamenti spacciati per canzoni etniche e frastuoni da rave-party, neanche un deejay sfigato che gli tenesse compagnia. La spense nervoso e guardò l’orologio. Le tre e quaranta.
Mauro Vallini uscì dal locale solo verso le cinque.
Trentasette anni, abbronzatura perenne e faccia da coglione, l’attore si diresse verso la sua Alfa 147 rosso fiammante.
Ernesto prese il Machete posato sul sedile del passeggero e schizzò fuori dalla Punto.
L’aria gelida lo sferzò, una scudisciata d’inverno in piena faccia. Lui s’ingobbì leggermente incassando la testa nelle spalle e s’avviò a passi rapidi verso il suo obiettivo, tenendo il braccio destro disteso lungo il corpo, le dita strette attorno all’impugnatura d’argento lavorato del machete.
Vallini camminava a qualche metro di distanza, muovendosi come se stesse interpretando una parte: schiena dritta, petto in fuori, mani in tasca, capelli al vento.
“Io sono ricco, io sono bello, io sono Mauro Vallini!” pareva dire col suo portamento arrogante.
“Un divo del cinema del cazzo” pensò Ernesto, mentre gli si avvicinava in silenzio, col machete che gli batteva sulla coscia con lo stesso ritmo ossessivo di una goccia d’acqua che cade da un rubinetto che perde.
Oltre l’angolo, la stretta traversa in cui l’attore aveva parcheggiato era deserta. Un solco tra due palazzi vecchiotti su cui si affacciavano saracinesche chiuse.
Ernesto prese un respiro profondo e accelerò il passo. Era a meno di dieci metri dalla preda, con la testa già a quello che sarebbe accaduto di lì a poco, quando una ragazza sbucò fuori dal nulla.
Alta attorno al metro e settanta, capelli scuri, lunghi e lisci, magra, molto carina. Un sette e mezzo, forse pure otto.
— Scusi, ma lei è Mauro Vallini? Voglio dire, cioè, è proprio lei? Oddio che emozione! — Si torceva una ciocca di capelli con due dita della mano sinistra, mentre guardava Vallini estasiata, manco fosse stato un essere mitologico.
Ernesto si bloccò, bestemmiò santi a caso e s’infilò in una cabina telefonica.
Quel fuori programma proprio non ci voleva.
Dalla sua problematica postazione sentì l’uomo esordire con la sua voce suadente: — Sì, sono proprio io.
Manco fossi Marlon Brando! Mandala a fare in culo, stronzo!
— Sa — riprese la ragazza — io la vedo sempre in televisione. Non mi perdo una puntata di Tecniche Anticrimine!
E solo una cretina come te se la poteva guardare quella serie di merda!
— Mi fa piacere. È un progetto che mi sta dando delle grosse soddisfazioni. — Vallini pronunciò quelle parole come se ci credesse davvero, anche se la fiction in cui recitava era stato probabilmente il più grosso flop della stagione televisiva.
Quando si sentì dire: — Secondo me lei è il più bravo in assoluto — gratificò l’ammiratrice con un sorriso smagliante che andava da un orecchio all’altro.
— Be’, ci sono dei colleghi molto validi e con più esperienza di me che sicuramente meritano anch’essi il consenso del pubblico. Però, ritengo lo stesso d’aver dato un certo contributo al successo della serie. Senza essere presuntuoso posso dire che da quando sono entrato a far parte del cast abbiamo aumentato lo share di quasi mezzo punto, e il picco di contatti nell’ultima puntata è stato registrato nel momento in cui ho estratto la pistola per bloccare lo spacciatore. — Sottolineò quell’acuta osservazione con un altro sorriso.
La ragazza sorrise pure lei, e annuì convinta, come se avesse appena sentito Nelson Mandela lanciare proclami contro l’apartheid.
A Ernesto stavano cominciando a girare le palle.
— Non vorrei farle perdere tempo, cioè, lo so, è tardi, ma come dire, oddio, lei è così… bello! Davvero, dico.
Ma tu sentila, questa rimbambita!
Vallini provò a fare il modesto. — In effetti è un complimento che mi fanno molte donne, senza presunzione.
No-oh! E quale presunzione!
— Però è un piacere sentirselo dire da una ragazza tanto affascinante. — Le scoccò uno sguardo ammaliatore e non le diede tempo di riprendere fiato.
— Le andrebbe un drink?
Di’ di no! Di’ di no!
— E come potrei rifiutare?
Dannata puttana!
La ragazza ammiccò civettuola e tese la mano destra: — Oh, scusi la cattiva educazione: non mi sono neanche presentata! Comunque, mi chiamo Deborah, Deborah con la acca — fece, sottolineando le ultime parole con voce voluttuosa.
Vallini si esibì in una specie di baciamano. — Piacere, Deborah con la acca! — Un altro sorriso a trentadue denti, in stile pubblicità per dentifricio, e le offrì il braccio. — Andiamo, allora.
La ragazza gli si avvinghiò senza farselo ripetere e i due fecero dietrofront per dirigersi verso il locale da cui lui era appena uscito.
Un attimo prima che giungessero alla cabina in cui si era fermato, Ernesto spinse la mano col machete davanti a sé, in modo che l’arma si trovasse a sandwich tra il suo corpo e la base del telefono, e prese a parlottare col suo immaginario interlocutore di partite a calcetto e portieri che non si trovavano. Alle cinque di mattina…
Ma che cazzo sto dicendo!
Imprecando tra sé, sperò che Vallini e la smorfiosa non fossero riusciti a distinguere le sue parole sconclusionate. Voltò la testa quando quelli gli passarono proprio accanto.
Non appena quelli l’ebbero sorpassato, però, vide la ragazza girarsi rapidamente verso di lui, guardarlo negli occhi e con la mano libera mostrargli il dito medio.
Ma che diavolo…
Deborah con la acca si voltò di nuovo e riprese a parlare con Vallini come se nulla fosse accaduto.
Ernesto, esterrefatto, restò con la cornetta in mano per qualche istante. Non c’era nessun altro nel vicolo: il gesto era rivolto proprio a lui. Ma perché, si chiese.
Un po’ alla volta, poi, un’idea si fece largo nel suo cervello.
Sicuramente c’era lo zampino di Tony.
Infuriato schiantò la cornetta sul telefono e prese a muoversi rapidamente verso i due, che già erano ormai prossimi a voltare l’angolo, oltre il quale, a venti metri, avrebbero trovato la salvezza.
In realtà non aveva per niente chiaro in che modo dovesse agire. Il piano originario era andato a farsi benedire e lui non era un mago dell’improvvisazione.
Avvicinandosi a grandi passi all’attore e alla sua fan inopportuna sentì i battiti crescere a un ritmo insostenibile, il sudore rendergli viscida la presa sul machete.
Si rese conto che non ce l’avrebbe fatta. Uccidere pure quella cretina non era una cosa preventivata, e soprattutto non era fattibile. Con una pistola forse sì, ma non col machete.
Chissà che casino avrebbe fatto vedendo la testa di Vallini rotolare sull’asfalto! Avrebbe urlato peggio di una soprano alla Scala e sarebbe accorsa un sacco di gente dal Kissing Devil. E allora lui come se la sarebbe cavata? Con una strage a colpi di machete? Neanche nei film horror più cazzuti si vedevano cose del genere.
Niente da fare. Doveva pensare, e doveva farlo in fretta.
Rallentò l’andatura e infilò il manico del machete nei pantaloni, nascondendo la lunga lama sotto il giubbotto, proprio mentre Vallini e la ragazza voltavano l’angolo.
Aspettò che si allontanassero un altro po’, poi si immise pure lui in Corso Vittorio Emanuele e si diresse verso il locale, sapendo già come sarebbe andata a finire. Era un posto per gente coi soldi. Lui non rientrava certo nella categoria. L’avrebbero allontanato a calci in culo, pensò, però un tentativo doveva farlo lo stesso. Inspirò forte e si infilò la sua migliore faccia di bronzo.
Le luci rosse dell’insegna si diffrangevano sulle spalle enormi dei due addetti alla sicurezza che sorvegliavano l’ingresso. Il primo era calvo e con un grugno poco amichevole, il secondo invece era biondo, pettinatura stile David Beckham duemiladue e sguardo da seduttore navigato. Entrambi indossavano dei vestiti molto migliori dei suoi.
Si avvicinò loro con un’aria di superiorità fasulla a prima vista quanto un dollaro cinese.
— Salve — disse, e cercò di entrare come se fosse stato di casa.
Mastrolindo lo bloccò.
— Scusi, lei è in lista? — Il suo tono sapeva tanto di spremuta di buone maniere andata a male.
— Certo che sono in lista. E ora, scusi ma ci sono delle persone che mi attendono.
Ernesto sfoderò un’espressione vagamente risentita e provò a passare, ma il buttafuori non si spostò di un millimetro.
— Mi dispiace, ma devo controllare. Mi dice il suo nome, per cortesia?
Le cose si mettevano male.
— Ma che sciocchezza! Lo sa benissimo il mio nome. Vengo qua tutte le sere e ancora mi trattate come uno sconosciuto qualunque. Giuro che è l’ultima volta che metto piede in questo locale.
Ci aveva messo tutto lo sdegno di cui fosse capace, ma il suo abbigliamento faceva sorgere più di un dubbio sul fatto che fosse un uomo di successo.
Vide l’omone biondo soffermarsi per qualche istante a valutare le scarpe da ginnastica, quindi passare ai pantaloni lisi e infine al giubbotto comprato al mercato. La sua faccia Non-raccontarmi-stronzate-amico gli consigliò una ritirata onorevole, senza calci in culo o voli sul marciapiede.
Mentre si allontanava dal locale, Ernesto scorse Tony dall’altro lato della strada. Gli stava indicando l’orologio.
Diede un’occhiata al suo Casio falso made in Taiwan e si accorse che mancava solo un’ora.
Fanculo, stronzo.
Se Maometto non poteva andare alla montagna, si disse, la montagna sarebbe andata da Maometto.
Tornò a grandi passi alla cabina telefonica in cui si era fermato poco prima e infilò un paio di monete da venti centesimi nel telefono. Dall’892-892 si fece dare il numero del Kissing Devil e chiamò il locale.
— Pronto? — La voce di chi aveva risposto gli arrivò assieme a un guazzabuglio incomprensibile di rumori di sottofondo.
— Pronto, il signor Vallini è lì? Gli dica che gli stanno rubando l’Alfa. Presto!
Buttò giù e corse all’incrocio, a spiare da dietro l’angolo l’entrata del locale. Meno di un minuto dopo vide Vallini precipitarsi fuori e correre verso il vicolo in cui aveva parcheggiato, e in cui lui lo attendeva.
Pure la ragazza era uscita, ma coi tacchi alti faticava a star dietro all’attore: dopo neanche dieci metri desistette dal correre e prese a camminare lentamente.
Era il momento.
Ernesto si appiattì al muro ed estrasse il machete dal giubbotto, mentre i passi di Vallini riecheggiavano sempre più vicini.
Inspirò profondamente.
Cinque… quattro… tre… due… uno…
Vallini girò l’angolo correndo e la sua gola incocciò nella lama affilata del machete che gli saettava contro. Il sangue sprizzò furioso.
Un colpo, un morto.
La testa dell’uomo volò via, il resto del corpo crollò pesantemente sul marciapiedi.
Ernesto, sbilanciato dal colpo portato a due mani come se stesse impugnando una mazza da baseball, ruotò su se stesso e andò a sbattere con un braccio contro il muro. Lasciò la presa sul machete che rimbalzò risuonando di metallo sull’asfalto sconnesso del vicolo.
Imprecando, corse a riprendere l’arma. Doveva fare in fretta, lo sapeva: la ragazza avrebbe girato l’angolo di lì a poco. Afferrò la testa di Vallini e l’infilò nel sacchetto nero che aveva portato con sé in una tasca del giubbotto.
Con il suo trofeo, poi, scappò più veloce che poteva verso la fine del vicolo. Voltò a sinistra un attimo prima che l’urlo alle sue spalle gli rivelasse la scoperta del cadavere.
Si fermò un istante a riprendere fiato, quindi riprese a correre. La ragnatela di vicoli bui che percorreva faceva il giro di un paio di edifici e sbucava di nuovo in Corso Vittorio Emanuele, cinquanta metri prima del punto in cui aveva lasciato la macchina.
Mentre la gente si accalcava intorno al corpo decapitato di Vallini, raggiunse inosservato la Punto.
Aveva il respiro grosso, ma non poteva rifiatare, non era ancora finita.
Mise in moto e partì, senza sgommate che attirassero l’attenzione. Solo quando fu abbastanza lontano dal Kissing Devil spinse il piede sull’acceleratore.
Impiegò venti minuti per raggiungere il suo garage fuori città. Tony era lì che lo attendeva, sperando, ovviamente, che arrivasse in ritardo.
— In anticipo di mezz’ora. Non credevo che ce l’avresti fatta — fu costretto ad ammettere, quando Ernesto uscì dall’auto.
— Vaffanculo. Se non era per la tua amichetta, ci mettevo dieci minuti a farlo fuori.
— Senti chi parla! Per farmi perdere tempo la volta scorsa mi hai sguinzagliato alle calcagna un omosessuale che voleva per forza rimorchiarmi.
— Lasciamo perdere, va’. Anzi, a proposito, la tua Deborah terrà la bocca chiusa?
— Entrerà pure lei in gioco, la prossima settimana. Non preoccuparti, non parlerà. Ti ci puoi giocare la testa.
Ernesto sorrise sarcastico. — Ah. Ah. Ah! Spiritoso.
Gettò il sacco con la testa di Vallini sul pavimento.
— Due a uno per me — fece.
Tony lo guardò, poi si concentrò sulla testa e le diede un calcio, come se stesse tirando una punizione all’incrocio dei pali. — Già, ma domani tocca a me! — disse, prima di recuperare il machete, montare sulla sua Skoda Felicia e filare via.
Ernesto seguì con lo sguardo la macchina che si allontanava, poi con un pennarello rosso segnò una X accanto al proprio nome. Fissò la tabella attaccata al muro e sospirò.
Due a uno.
Gli mancava un punto, la partita non era ancora vinta.
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