Fuori orario (Afterhours), Martin Scorsese, USA 1985
Sinossi: “Mi chiamo Paul Hackett, mi trovo a Soho ma non so esattamente dove. Insomma, sono perseguitato da una folla inferocita e lei sa di che cosa sono capaci. Ho tutte le ragioni per credere che la mia vita sia in pericolo, in gravissimo pericolo”.
La tipologia narrativa in cui si muove Fuori orario è in genere molto presente nel noir, in cui il protagonista viene progressivamente gettato in una dimensione allucinatoria e infernale, senza via d’uscita e dalla quale non c’è redenzione possibile. È spesso caratterizzata da una spirale di violenza che porta a un annichilimento del protagonista (e dello spettatore), come in Detour, deviazione per l’inferno (1945), film culto girato in una sola settimana, in cui l’espressionismo tedesco – del quale il regista Ulmer è stato attivo protagonista – mette la sua potenza visiva al servizio della muscolarità dell’hard boiled school statunitense: Detour è un film che anticipa, tra gli altri, il cinema ambiguo e allucinato di David Lynch, dove l’ineffabilità del caso priva l’esistenza umana di ogni sicurezza e di stabilità onto (logica), in un percorso che si configura spesso come un vero e proprio itinerarium mentis in nihilum.
Una sua variante è una versione più alleggerita, divertita e surreale in cui l’eroe/ricercatore si trova a fronteggiare un campionario di situazioni assurde e allucinate dove le normali leggi di realtà sono sospese, spesso all’interno di un’unità di tempo circoscritta e delimitata, con un timelock declinato secondo il modello del “tutto in una notte” che scandisce il tempo che separa il protagonista dal suo agognato ritorno al mondo ordinario. Afterhours rappresenta al suo meglio la potenza di questa tipologia filmica allucinatoria, presentandosi come un percorso di progressiva sospensione delle consuete leggi di causa-effetto in vigore nel mondo reale.
Fin dalle prime battute del film di Martin Scorsese comprendiamo di trovarci di fronte a un congegno esplicitamente kafkiano: Paul Hackett, programmatore informatico dall’aspetto impiegatizio e anodino, ha fatto dell’ufficio la sua tomba personale, in una pratica di mondo monotona, prevedibile e quindi sempre uguale a se stessa. L’improvviso e inaspettato abboccamento in un bar con la bella Marcy – che cita a memoria frasi da Tropico del cancro di Henry Miller, romanzo che Paul sta leggendo al suo tavolo – precipita l’uomo in un catalogo di situazioni inverosimili e grottesche, incontri con personaggi bizzarri della New York by night, sprofondandolo in una dimensione sempre più incubotica e allucinatoria che però – almeno per noi spettatori – ha la lievità metafisica e spensierata di un divertimento mozartiano (ed è in effetti proprio il Mozart della K 73 ad aprire e a chiudere ironicamente il film).
L’incubo di Paul comincia al calare del sole, non appena decide di dare un calcio alla sua sicura monotonia per immergersi nelle strade di una New York notturna e imprevedibile A causa della complicità quasi istantanea scattata alla tavola calda, Paul è stuzzicato dall’idea di raggiungere Marcy per trascorre con lei una piacevole serata, magari presentandosi con la scusa di comprare i bizzarri fermacarte di cartapesta che realizza Kiki Bridges, la scultrice coinquilina di Marcy. Ma che la nottata a cui sta andando incontro non sarà come tutte le altre appare subito evidente già quando Paul si imbatte nel tassista spericolato che lo condurrà a casa di Marcy e a cui non pagherà la corsa perché la sua unica banconota da 20 dollari vola via dal finestrino.
Marcy vive nel loft di Kiki, una scultrice decisamente poco convenzionale, una delle tante caricature di artisti warholiani anni Ottanta presenti nel film. L’impatto con l’eccentricità sopra le righe delle due donne si rivela decisamente traumatico per Paul, che preferisce abbandonare il loft mentre Marcy sta dormendo. Ha meno di un dollaro in tasca, che sarebbe sufficiente per prendere la metropolitana e tornare a casa se non fosse che proprio quella notte il biglietto è aumentato a 1 dollaro e 50. Non gli resta che vagare sconsolato per le strade newyorkesi riflettendo sulla sua condizione; va da sé che piove a dirotto e Paul si ritrova, elementare corollario della legge di Murphy (vero e proprio motore narrativo del film), in un quartiere saccheggiato nelle ore precedenti da una banda di ladri d’appartamento. Attraverso un’escalation di concomitanze rocambolesche Paul indossa i tremendi panni del capro espiatorio di ogni crimine e misfatto accaduto nelle ultime ore a Soho, inseguito da una folla di pseudo-artisti, famiglie derubate e femministe frustrate, capitanata da una gelataia ambulante che lo vuole uccidere, in un allucinato ribaltamento di ogni principio di realtà.
La suspense di Fuori orario è costituita proprio dal sovvertimento che sospende le normali regole in vigore in un mondo narrativo provocando uno slittamento linguistico che ribalta i rapporti consueti tra i significa(n)ti, cosicché le dinamiche della suspense sembrano scaturire da una specie di surreale scarto metafisico, da un fuori sincrono sempre più marcato – che viene scandito dagli inquietanti ticchettii della colonna sonora di Howard Shore – per cui le situazioni assurde in cui si imbatte il nostro protagonista non sono interpretabili né tantomeno risolvibili attraverso le categorie logiche, etiche e culturali alle quali facciamo normalmente riferimento. Un fuori sync che diventa sempre più evidente e che porta al ribaltamento dei consueti rapporti di causa-effetto: ecco che allora la donna si trasforma in una temibile e subdola cacciatrice; i bar, da tranquilli luoghi di ristoro e di ritrovo, diventano delle trappole mortali e pestifere ed anche un piccolo e accogliente appartamento può rivelarsi luogo di sfrenata e pericolosa cupidigia. D’altronde, è proprio il gestore di un locale ad avvertire Paul del sovvertimento in atto nel (suo) mondo narrativo: “A quest’ora cambiano le regole, sapete? È come un After Hours”.
Fuori orario, con i suoi guizzi grotteschi e la sua caustica e paradossale irriverenza, ci dice in fondo che la suspense agisce proprio quando il conflitto di un personaggio (e dello spettatore) evidenzia un gap incolmabile (linguistico innanzitutto, nel senso, appunto, che ai vari significanti non corrispondono i significati consueti) con il mondo narrativo in cui si trova ad abitare. Del resto, la lingua parlata in questa New York allucinata e psichedelica è assolutamente incomprensibile: Paul chiederà a più riprese di rendere conto di cosa gli stia capitando, cercherà conforto nell’umanità delle persone che incontra, ma troverà solo diffidenza e incomprensione, perché la sua lingua non è quella degli altri personaggi. Non c’è punto di intesa possibile. Il mondo stra-ordinario in cui emerge il dark side della metropoli trasforma radicalmente la normalità impiegatizia del personaggio interpretato da Griffin Dunne, presentando una specie di fenomenologia della differenza, contrapposta ai conformismi degli anni più omologati della storia americana recente.
E allora, nietzschianamente, se “tutto ciò che è profondo ama la maschera”, il mascheramento che chiude il film diventa l’unica via di fuga possibile in quanto presa di coscienza dell’identità ineffabile che alberga dentro ciascuno di noi: solo quando Paul verrà coperto da strati di cartapesta e trasformato in scultura riuscirà a salvarsi dall’infernale apocalisse di sciagure che gli sono piombate addosso; fino a quando si ritroverà all’alba, di ritorno dal suo Hallucination Trip, umiliato, inseguito e ricoperto di gesso, dinanzi al cancello del suo ufficio, pronto per cominciare un’altra giornata lavorativa, forse però, con una nuova consapevolezza e con una prospettiva esistenziale radicalmente diversa rispetto a 12 ore prima, consapevolezza che, probabilmente, gli consentirà di non limitarsi a programmare computer ma di prendere in mano anche la sua vita.
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