il - cerchio - muto - nerozziINTERVISTA a Gianfranco Nerozzi – di Silvia Torrealta

Gianfranco Nerozzi è nato nel 1957 a Bologna dove vive e lavora. Karateka e batterista in un gruppo rock è approdato alla scrittura nel 1990. Ha vinto il Premio Tedeschi col romanzo Cuori perduti, ed ha scritto Genia, Resurrectum e molti altri romanzi e racconti, quasi tutti di genere horror. “Il cerchio muto” è il suo ultimo libro, un’interessante esperienza di commistione di generi diversi.

1) Come definiresti il tuo ultimo romanzo: Il cerchio muto, horror, poliziesco, letteratura nera…  È diverso dagli altri che hai scritto, ad esempio Genia o Resurrectum? In che cosa ? E perché?

È diverso dai precedenti. E nello stesso tempo uguale: nella sua inclassificabilità. Nel senso che, come sempre ho fatto, anche stavolta ho scritto un romanzo degenere, che può essere letto nei modi più disparati. Quindi non solo un horror, non solo un poliziesco, non solo un romanzo generazionale. Nel complesso definirlo thriller potrebbe dare un’idea, molto approssimativa (la suspense pare che non manchi…) Ma poi ci sono tutti i discorsi legati alle tematiche sociali ed esistenziali che lo rendono al di sopra di ogni sospetto, o al di sotto, a seconda di come uno vuole vederla. Ho voluto mantenere lo stile in una forma per così dire: allargata, lasciando le porte aperte ai lettori di tutti i tipi, senza usare gli stilemi classici strettamente legati alla letteratura di un certo genere, orrorifica per eccellenza, tanto per dire. Ho adottato uno spettro più ampio, usando un flauto magico con più possibilità armoniche, per fare in modo che nuovi lettori potessero essere ammaliati e venire verso di me. Persino la casa Editrice non ha voluto mettere in copertina la dicitura thriller, ma solo: romanzo, e basta. Un romanzo di Nerozzi, però, con tante pagine irte di emozioni profondamente eseguite e sinceramente condivise. Credo che la definizione poesia del brivido possa dare bene l’idea della pulsione di fondo che si nasconde nella trama: che si nasconde e poi si scopre.

2) La storia narrata in questo romanzo, che sostanzialmente evidenzia problematiche molto sentite riguardo alle stragi del sabato sera, quanto risente del fatto che tu abbia un figlio adolescente?  E che cosa significa poter entrare e poter uscire dal Cerchio ?

Pensa che questa storia l’aveva già pensata da molto tempo, almeno da dieci anni. Ma non ero mai riuscito a portarla avanti. E solo adesso che, appunto, mio figlio Samuele è diventato adolescente, sono riuscito a trovare la forza necessaria per farcela. Quindi: sì. Molto merito va a lui, alla sua influenza e ai suoi consigli. Ma anche alle riflessioni che per forza di cose, come davanti a uno specchio di paura, qualsiasi genitore si trova a dovere affrontare al cospetto di tutto quello di brutto che ci circonda. Il timore di non poter proteggere veramente i nostri figli, la paura di non essere compreso da loro, di non farcela, unita alla malinconia per il tempo che passa e non ritorna. Ti scopri tutte quelle rughe in più sulla faccia e tuo figlio di colpo non sta più collezionando Pokemon, ma se ne va in giro abbracciato a una bella ragazza. Allora ti senti vecchio e giovane nello stesso tempo e, nel contrasto, non capisci più come devi comportarti per farcela. Quindi alla base di tutto c’era un discorso che aveva a che fare con la responsabilità di essere genitori e il coraggio di essere figli: e all’improvviso avevo capito cosa doveva mettere dentro al libro. Come dovevo procedere. Il cerchio muto, nella fattispecie, è lo spazio ipotetico che nelle arti marziali circonda un combattente, dentro al quale sei al sicuro dall’essere colpito, ma dove nemmeno puoi riuscire a colpire per vincere il tuo avversario. Nel mio romanzo rappresenta la zona di confine dell’anestesia, la gabbia dove ci si rinchiude quando si perde la voglia di combattere, il non sentire più nulla, il preferire il silenzio alle grida di ribellione. I giovani prendono droghe e non capiscono, si schiantano sulle strade, e i grandi a volte fanno finta di nulla. Veniamo tutti quanti rinchiusi giorno per giorno dentro a nuovi cerchi di silenzio, con la televisione che impera e la crisi che fa lo stesso, soprattutto quella dei valori. Con questo romanzo ho voluto lanciare fondamentalmente una sfida. E sbattere fuori dal cerchio un mare di suggestioni, per capire come le urla servono per fare in modo che tutti sappiano che esistiamo, tutti, persino noi stessi.

3) In una tua intervista sul “Cerchio Muto“ c’è un tuo richiamo a Victor Hugo. Ci sono immagini, flashes, rimandi di altri scrittori che in qualche modo hanno influito nell’architettura di questo romanzo? Ovviamente questa domanda va intesa nel senso in cui Eco dichiara che “ogni libro dialoga sempre con altri libri “.

Bellissima la dichiarazione di Eco, con cui mi trovo assolutamente d’accordo. Tutto è collegato e fa parte di un insieme che pulsa e cresce. L’arte così diventa un enorme serbatoio pieno fino all’orlo di pozioni liberatorie. Le sintonie non sono solo importanti, ma auspicabili. Così per me in questo romanzo, suggestioni suggerite e scaturite da altri romanzi, ma non solo. Alla fine del libro c’è la soundtrack, la colonna sonora del romanzo, e la visiontrack, le immagini dei film che mi hanno influenzato, oltre alla bibliotrack. Questo per dire che tutto serve e tutto diventa materia di scintille. Tutto il buono che c’è: che si dilata e si trasforma e prolifera. Dentro e fuori dal cerchio: eh!

4) Spesso avvicinano la tua produzione letteraria a quella di Stephen King. Accetti questo accostamento ? E quale differenze ritieni che vi siano con  la tua produzione ?

Io ho amato e amo molto King e quindi mi fa onore essere accostato a lui. La cosa mi inorgoglisce. Ovvio. Anche se nello stesso tempo provo un’ombra di tenerezza per come noi italiani non riusciamo proprio a fare a meno di trovare paragoni con gli stranieri famosi. King però scrive della sua terra e io scrivo della mia. Con tutti i personaggi credibili che servono, a fare da contorno. Io credo di essere più carnale, rispetto a lui. E decisamente più struggente e più cattivo, quando mi ci metto.

5) Il fatto di presentare “Il cerchio muto“ con uno spettacolo in cui intervengono performances di linguaggi diversi, danza, scultura, musica, scenografie ecc.. è legato alla volontà di diversificare una presentazione dalle tante che si svolgono giornalmente in ogni città o avverti un’esigenza di espressione multimediale di cui dai un esempio con questo spettacolo?

Io ho sempre presentato i miei libri, per anni, assieme al mio compare Lucio Morelli, grande autore e compositore e cantante. Con dei concerti di parole: una mescolanza fra uno spettacolo rock e un reading. Un’esigenza suggerita forse dal mio passato da musicista, un modo come un altro per continuare a fare i conti con un palco e delle note e delle parole davanti a un pubblico che applaude. Nell’occasione dell’uscita del Cerchio muto, ho sentito la necessità di spingermi oltre. Così ho voluto mettere in piedi uno spettacolo dove il libro viene reinterpretato da altre forme artistiche. Un gruppo musicale di ragazzi molto preparati: i Prophexy, interpreteranno il mio gruppo fantasma: The Mastema, quello che ho inventato e messo in tutte le mie opere. Poi ci sarà una bravissima cantante lirica: Katia Natalini. Le coreografie di Annadora Scalone. Le scenografie di Roberta Denti del Laboratorio artistico Perlarte. Le immagini della regista Valentina Bertani. La direzione artistica di Graziano Ferrari in collaborazione con il Teatro presenza… Se vuoi lo possiamo chiamare anche multimedialità. Io credo che sia solo e unicamente un desiderio e un simbolo. L’espressione dell’uscita dal cerchio, la liberazione delle grida, sempre quella. Emblematica fuga verso un punto di luce lontano. Assolutamente fuori da tutto il silenzio che c’è.

Recensione di Silvia Torrealta.

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