A volte capita che un autore interessante venga scoperto solo dopo alcuni anni dall’uscita in lingua originale e tradotto in italiano a distanza di tempo. Succede in questo caso con William Boyle, di cui Minimum Fax ha fatto uscire alcuni mesi fa “Gravesend”, suo primo romanzo, risalente al 2013.
Gravesend è una zona di Brooklyn ed è anche il luogo nel quale sono nati e cresciuti i protagonisti di questo libro. Non interessato da fenomeni di gentrificazione, Gravesend, abitato per lo più da italo-americani di umili origini, ai margini della società, è il teatro nel quale si svolge la nostra vicenda. Un delitto avvenuto contro un appartenente alla comunità gay diversi anni prima, torna in qualche modo di attualità quando il suo principale artefice, Ray Boy Calabrese, esce di prigione dopo aver scontato la sua pena. Conway D’Innocenzio, fratello della vittima, che da anni prepara la vendetta, si troverà al centro di un intreccio di situazioni che preparano un finale insolito e molto ben costruito. L’atmosfera è quella classica del noir e l’autore ci conduce con abilità all’interno della comunità di Gravesend, attraverso un meccanismo di “rimbalzo” tra presente (il tempo della vendetta) e passato (il tempo del delitto) che alimenta la curiosità del lettore. Si tratta di un romanzo “corale”, nel senso che non ha un solo protagonista, ma una serie di ragazzi appartenenti alla stessa comunità, le cui storie, come in un caleidoscopio scompaiono e ricompaiono per poi disvelare un finale armonico. A differenza dei classici noir a cui siamo abituati, in questo caso però non ci sono poliziotti e detective e non ci sono indagini, se non quelle che compiono i protagonisti della vicenda, sicuramente non in modo canonico.
Boyle ha una prosa molto asciutta e distaccata e, contrariamente a quello che si potrebbe pensare inizialmente, questo aspetto finisce per diventare un ulteriore elemento di coinvolgimento del lettore. I suoi personaggi, ben delineati dal punto di vista psicologico e di ambientazione sociale, sono sicuramente dei perdenti. Perdente è anche un’intera comunità e una generazione (la generazione X cui appartiene anche Boyle), che ha smarrito le sue origini e le sue tradizioni e arranca in un modernismo luccicante e spesso privo di valori, in cui l’unica dimensione sociale è rappresentata dai centri commerciali e dalle strade sporche e in cui dominano solamente rifiuti e carcasse di auto demolite. Non esiste alcun paesaggio naturale a fare da sfondo ai racconti di Boyle, ma solo intrecci di highways e sopraelevate del treno e della metropolitana (emblematica è a questo proposito l’uscita “fuori porta” dei ragazzi Eugene e Sweat e la loro descrizione della natura, disconosciuta e vista come aliena e straniante). Boyle non ci concede in quest’opera alcuna speranza. I suoi personaggi non ammettono riscatto o redenzione, ma solo una lenta e inesorabile discesa agli inferi. Persino la mafia italo-americana, nella descrizione che ne viene fatta nel romanzo, sembra quasi arrendersi a un destino di sopraffazione, mentre i nuovi emergenti russi e cinesi hanno un’aria quasi meccanica.
Ma se gli attori di quest’opera scivolano ineluttabilmente verso l’abisso, la capacità di Boyle di farci entrare nella scena che racconta è straordinaria e, forse, in fondo, è proprio grazie all’enorme affetto che Boyle prova per i “suoi” ragazzi di Gravesend, che finiamo per terminare questo viaggio nelle periferie di una dolente post-modernità con un sentimento di pietà e consolazione.
Recensione di Giuliano Muzio.
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