Luigi Pirandello diceva che la realtà supera di gran lunga l’immaginazione poiché la realtà, a differenza della fantasia, non si preoccupa di essere verosimile in quanto vera.
In occasione dell’attesissima uscita di Holly di Stephen King, non sono sicuro se la realtà ha superato la fantasia, ma di sicuro ci si avvicina parecchio.
Lo scrittore del Maine ci ha abituato alla esplorazione delle vette letterarie più suggestive attraverso una narrazione unica e irripetibile, in una parola kinghiana. Eppure, nel suo fenomenale mosaico immaginifico forse mancava questo tassello, della cui comparsa mi piace pensare che nemmeno lui fosse del tutto consapevole e pertanto ne sia rimasto piacevolmente sorpreso.
Avete presente il suo romanzo Misery? L’infermiera psicopatica Annie Wilkes trae in salvo da un incidente automobilistico Paul Sheldon, scrittore di successo di una serie di libri che hanno come protagonista, appunto, una donna di nome Misery. Dopo aver scoperto che nell’ultima storia appena pubblicata la sua eroina prediletta muore, Annie farà uso di tutti i mezzi e gli strumenti più crudeli ed efferati affinché l’autore scriva immediatamente, seduta stante, un altro romanzo in cui Misery torna in vita.
Ebbene, con le dovute proporzioni, è quello che è capitato a King con il personaggio di Holly Gibney, protagonista di Holly. Lui stesso ha dichiarato che l’idea di partenza per il suo ruolo nella trilogia Mr. Mercedes, Chi perde paga e Fine turno è stata quella di una figura secondaria, ma poi, trasportato dell’inaspettata forza acquisita dal personaggio, non se l’è proprio sentita di lasciarla a sé, confinata in quelle tre storie, e ha sentito il bisogno di continuare a darle voce. Prima le ha regalato un ruolo da comprimaria in The Outsider, poi da protagonista in un racconto della raccolta Se scorre il sangue, e infine adesso, con un romanzo tutto suo, che porta il suo nome. Il suggello di una “esistenza”.
Holly inizia con un balzo indietro di alcuni anni, in cui, senza troppi indugi, ci mette di fronte a un rapimento di persona e a chi ne è responsabile. Ai giorni nostri Holly Gibney, subentrata al compianto Bill Hodges come titolare dell’agenzia investigativa Finders Keepers, mentre presenzia al funerale della madre viene contattata da una donna che la supplica di ritrovarle la figlia scomparsa. Da questi primi eventi si ha la sensazione che alcune domande abbiano già una risposta, ma naturalmente non è così. Quello che ci attende andrà ben oltre le più ovvie conclusioni. In perfetto e insuperabile stile kinghiano.
Al di là di rappresentare il bene, e quindi fare il tifo per Holly Gibney viene comprensibilmente spontaneo, è impossibile non provare un’empatia insolita nei suoi confronti, una vicinanza che travalica il trasporto per il classico eroe, solitario, simbolo di giustizia. Lei soffre di un cronico disturbo ossessivo-compulsivo e di un lacerante complesso di inferiorità; vive in una bolla di insicurezza che la induce a imporre disciplina e ordine in ogni cosa che affronta, piccola o grande che sia, a stanare il minimo granello che può inceppare o anche solo rallentare qualsiasi ingranaggio e qualunque schema preimpostato. E questa costante ricognizione, questa maniacale caccia al dettaglio fuori posto, la rende, nel proprio lavoro, un’investigatrice fuori dal comune, un’osservatrice capace di scorgere l’indefinito e l’infinitesimale.
Chissà, forse, conoscendola, Holly non sarebbe così entusiasta di ritrovarsi la protagonista assoluta di un romanzo che addirittura porta il suo nome nel titolo. Magari svierebbe lo sguardo e rifuggirebbe da tutte le luci della ribalta puntate addosso. Sarebbe troppo timida per ammetterlo, ma il suo messaggio è chiaro: il succo della vita, ciò che ci rende umanamente unici, è la perfezione dell’imperfezione.
Inutile negarlo, c’è un po’ di Holly Gibney in ognuno di noi. Grazie, Holly.
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