Con estremo piacere torno a raccontarvi di Andrea G. Pinketts, questa volta parlando della raccolta di racconti: “I denti del pregiudizio” che, come la precedente “Io, non io, neanche lui”, viene ristampata da Harper Collins. Questa volta, i racconti che l’autore pubblica hanno come immaginario interlocutore dello scrittore il dentista Elio Marino, che sostituisce la dottoressa B, psicologa protagonista della raccolta precedente. E, come nel primo libro di racconti, anche in questo caso Pinketts pesca, almeno in parte, dall’immaginario della saga del suo investigatore Lazzaro Santandrea, pur realizzando un’opera che sfugge a ogni catalogazione.
Non è la prima volta che mi imbatto in un’opera che prende spunto dai denti e dal lavoro di un dentista. Ricordo al volo “Il maratoneta” di Goldman, libro prima e poi film di John Schlesinger e poi ancora “Denti”, anch’esso libro e film, di Domenico Starnone il primo, di Gabriele Salvatores il secondo. In entrambe si fa riferimento alla cavità orale come strumento per raggiungere gli abissi dell’anima, seppur in modo molto diverso nei due casi. Vi sembrerà strano, ma anche per Pinketts in fondo è un po’ così. Lo è nel modo apparentemente scanzonato dell’autore milanese, che con la sua ironia tagliente prende di mira le principali nevrosi dei suoi concittadini, facendo ridere da un lato e riflettere molto dall’altro.
La Milano è quella del finire degli anni ’90. Anni nei quali si manifestavano i primi fenomeni migratori, che mettevano a nudo il fatto che un paese di migranti non era così pronto a essere un paese di accoglienza. Oggi, leggere le pagine sferzanti di Pinketts ci fa capire come una delle qualità di questo autore fosse capire in anticipo alcuni tratti della nostra cultura, all’epoca non ancora così palesi (in questo senso l’attualità del racconto “Piazza Napoli e poi muori” è sconvolgente). Sono questi i denti del pregiudizio che, come in un passaggio mirabile del prologo lo stesso Pinketts ci ricorda: “[…] sono invisibili a occhio nudo, ma estremamente radicati. Ti permettono di creare cavità da cui succhiare il sangue senza avere la nomea di vampiro. Sono denti ignoranti, ipocriti, volgari, in cui nessuno si riconosce. Eppure sono loro il vero specchio dell’anima.”
Insieme ai racconti creati appositamente per questa raccolta, in fondo al volume sono raccolti un paio di contributi del Pinketts giornalista, che, per Panorama ed Esquire, raccontava alcune sue testimonianze di vita vissuta, nel suo lavoro di inviato/investigatore/testimone/narratore che indagava alcuni vizi del nostro amato Belpaese. “Nero su bianco” e “Al diavolo i bambini” sono due piccoli gioiellini, esempi di reportage destrutturati, indagano la realtà quasi meglio di molte inchieste giornalistiche che sono solo apparentemente realistiche, mentre il lavoro dell’autore milanese, dichiaratamente di finzione e volutamente irrealistico, coglie paradossalmente gli aspetti essenziali dei fenomeni.
Troppi sarebbero i personaggi dei racconti da citare e non voglio fare torto a nessuno dei suoi protagonisti. Vittime di una città disorientata, contemporaneamente bulimica e inappetente, sono antieroi per definizione. Rifiutati dalla “città che produce e consuma” per eccellenza, si rifugiano nei loro mondi alternativi, vivono dei loro piccoli sogni e ci mostrano che dentro di loro ci sono universi interi. Inutili, e proprio per questo, meravigliosi. Il linguaggio merita una menzione. Tagliente, irriverente, rovesciato, distorto e quindi a suo modo puro, rimane uno dei lasciti più autentici del poeta Pinketts, che, come tutti i poeti, non riesce a guarire dalle ferite dei sentimenti e dedica l’introduzione alla sua (ex) amata Virginia. Perché tutti noi sappiamo che solo chi vive di fantasia sa soffrire veramente dei mali della realtà (come ci ricorda nella bella prefazione l’amico di sempre Andrea Carlo Cappi). Per quante lacrime possiamo avere, non ti piangeremo mai abbastanza, grande Pinketts.
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