Giancarlo Narciso è uno scrittore milanese che vanta al suo attivo un Premio Tedeschi nel 1998 e un premio Scerbanenco nel 2006. Per la piccola casa editrice ligure Oltre, ha appena ripubblicato “I guardiani di Wirikuta”, romanzo edito per la prima volta nel 1994. Scrittore prolifico, noto anche con lo pseudonimo di Jack Morisco, ha scritto e pubblicato più di trenta opere, tra romanzi e racconti, anche prendendo spunto dalla sua vita avventurosa che lo ha portato a viaggiare nei cinque continenti e a svolgere diverse professioni.
“I guardiani di Wirikuta” ci porta nelle montagne del Messico, vicino alla cittadina di Real de Catorce, un tempo fiorente località sede di numerose miniere dedite all’estrazione dell’argento, ma anche meta di numerosi pellegrinaggi di singoli o gruppi attirati dalle piante del peyote. Nella storia, la presenza di questa radice allucinogena ha alimentato leggende che si sono intrecciate con le tradizioni delle popolazioni native, che utilizzavano queste sostanze nei loro rituali sacri (a questo e al mitico luogo di Wirikuta fa riferimento il titolo). Le alture di questi luoghi evocano quindi paesaggi desertici, arsura e calore, che unite alle rocce e alle vestigia delle miniere abbandonate, contribuiscono a generare un clima di mistero, che, a metà strada tra il western e il thriller, ben ci predispongono alla lettura del libro.
Antonio Balestrieri è appena arrivato in città, alla ricerca di due italiani misteriosamente scomparsi negli anni precedenti. Insofferente, adattandosi allo spirito del luogo vaga per la cittadina, quasi attendendo una sorta di illuminazione che gli permetta di risolvere l’enigma, quando si imbatte per caso nella figura di un anziano del luogo, don Pancho. Ubriaco, sporco e mal vestito, il vecchio cerca però il dialogo con Balestrieri e comincia a raccontargli una storia che lo rapisce. Sarà una narrazione lunga, coinvolgente e dai tratti onirici. E fornirà a Balestrieri una chiave per decifrare il suo mistero.
Narciso ci trascina con la sua narrazione evocativa e ci conduce in un mondo di leggende che si intrecciano ai sogni, di realtà che si trasfigura nell’immaginazione, trasportandoci in una sorta di “non luogo” dove spazio e tempo non esistono più. Il parroco di Real è molto esplicito a questo proposito, quando parla con Balestrieri: “E, come le ho detto, il passato non esiste. È solo una rappresentazione messa in scena dagli spettri che vivono nella nostra mente perché noi stessi li nutriamo. Se smettiamo di nutrirli, muoiono da soli.”
Si capisce chiaramente che abbiamo a che fare con un autore che padroneggia il mestiere di scrittore. La narrazione a voci alterne, che si sposta da Balestrieri a Pancho, è sì un espediente narrativo, ma anche una sorta di confronto di culture, che talvolta da confronto si trascina nello scontro. Le miniere, le grotte e gli elementi naturali sono spesso in lotta con gli esseri umani, percepiti nella loro precarietà e transitorietà di fronte alla maestosità delle manifestazioni millenarie della Natura. Questa la frase che fa dire Narciso a Balestrieri: “Non aveva dimenticato la struggente intimità che aveva provato fin dalla prima volta che si era calato in una grotta. La scoperta di quell’oscuro mondo di silenzi che poteva contenere la proiezione del più ardito dei suoi sogni.”
Il tema di fondo è però un altro. Dal confronto con la maestosità della Natura non deriva nell’uomo un atteggiamento di umiltà e di rispetto nei confronti degli elementi naturali, come i nativi invece ci avrebbero voluto insegnare. Ne deriva piuttosto una superbia e una volontà di dominio che si manifesta nelle forme dell’avidità per l’oro e il denaro e della violenza e della sopraffazione nei confronti dei nostri simili. Saranno le grotte a evocarlo, ma la mente non può non correre all’eschiliano Prometeo incatenato e ai miti fondanti della civiltà occidentale. La nostra tracotanza è l’altra faccia di una smisurata angoscia nella quale vive la nostra anima, spinta dalla tecnica inarrestabile a dominare un mondo al quale non sa attribuire un senso.
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