Intensa e struggente opera di esordio, Il caravan (Carbonio editore; traduzione di Anna Mioni) è thriller, romanzo on the road, indagine psicologica e sociologica dell’America rurale, bianca, povera. E sopratutto è un romanzo di rara potenza lirica, duro e poetico.
Sulle stesse strade si inseguono due storie parallele, raccontate in capitoli che si alternano: quella di Rayelle, che nelle serate alcooliche in tristi bar cerca di affogare un dolore profondo, almeno fino al giorno in cui incontra il giornalista investigativo Couper, che su una minuscola roulotte agganciata a una Gran Torino indaga sulla sparizione di alcune ragazze. E quella di Kakhi, la cugina fuggita un giorno insieme a un ragazzo e mai più tornata indietro, anomala figura di serial killer. Strade e storie si sfiorano e si inseguono fino alla fine, sontuoso ritratto di un’America “Bibbia e fucile”, reazionaria e miserabile.
La scrittura è potente, visiva, e basta scavare poco per trovare solide radici. Riecheggiano la coralità dell’America disperata di Steinbeck e Faulkner, la densità un po’ barocca del primo MacCarthy, la capacità chirurgica di sezionare l’animo umano di Joice Carol Oates.
Grazie a questa scrittura complessa e poetica Jennifer Pashley riesce a dare corpo a uno dei temi portanti del suo romanzo: anche dove la miseria – sociale prima ancora che economica – domina, c’è sempre uno spazio per la bellezza, per un bagliore di riscatto. E’ paradossale come una storia di abusi fisici e psicologici, di violenze familiari, di povertà estrema possa generare immagini di bellezza simili a fotografie d’autore, e se mai questo romanzo diventasse una serie tv sarebbe fin troppo semplice pensare alla coppia Pizzolato/Fukunaga, che in True detective (la prima serie, quella iconica) hanno saputo raccontare esattamente questo tipo di atmosfere, situazioni e densità.
Il caravan è anche un grande romanzo femminile/femminista: se quella di Rayelle è la voce del rimpianto, della perdita, è una storia dolente di madri e di figlie, la voce di Kakhi è quella che rompe gli stereotipi di genere, è una voce rivoluzionaria di chi uccide ciò che ama come atto di libertà e di cura. Non sono figure contraddittorie e contrapposte, quanto piuttosto espressioni di un unico universo femminile: il finale, forse unica parte un po’ debole del romanzo, è però in questo senso perfettamente rappresentativo di questa unità, ricco di elementi simbolici e di rinascita.
Ne Il caravan gli uomini sono lasciati in secondo piano, persino Couper, è più che altro funzionale al viaggio di Rayelle. Non c’è in realtà una volontà accusatoria o denigratoria: semplicemente alla Pashley interessa raccontare un’altra storia, ed è una storia al femminile. E, grazie al cielo, la Pashley evita di cadere nella trappola del sentimentalismo politically correct, adottando un registro talvolta duro, sempre profondo, e decisamente originale.
Anche l’amore – quando c’è – è un amore omosessuale.
Le ho amate tutte in quel modo. Nel modo in cui odiavo con tutta me stessa le cose che mi erano state imposte, che avevano lasciato ferite profonde e cicatrici.
Le ho amate così tanto che le ho annientate.
Non si poteva essere liberi finché non si era stati schiavizzati. Non si poteva essere integri finché non ti avevano fatto a pezzi.
Il caravan è un romanzo denso, profondo, non sempre facile: ma è anche un gran bel romanzo di riscatto e libertà.
Jennifer Pashley è nata e vive a Syracuse (NY), dove insegna scrittura alla Syracuse University e al centro culturale Downtown Writer’s Center dell’associazione YMCA. Ha pubblicato diversi racconti e vinto il Red Hen Prize for Fiction, il Mississippi Review Fiction Prize e il Carve Magazine Esoteric Award for LGBT Fiction.
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