“Il caso dell’abominevole pupazzo di neve” è uno di quei romanzi in cui i sovrintendenti hanno le spalle larghe, e vengono dalla campagna: non sono particolarmente svegli, ma molto volenterosi. Atmosfere alla Agatha Christie o, addirittura, volendo risalire alle origini del romanzo giallo, alla Arthur Conan Doyle.
Non a caso, la prima edizione risale al 1941: due anni prima esce “Dieci piccoli indiani”, forse vero e proprio apogeo del genere. Par di scorgere infatti qualche riflesso proprio del capolavoro della Christie anche in questo romanzo: soprattutto nelle descrizioni asciutte, semplici e chiare degli ambienti, dei gesti e dei personaggi. E sono proprio queste descrizioni, per contrasto, ad accrescere il senso di mistero e di suspense.
Nel caos creato dal delitto però non ci si può comodamente appellare a un punto di riferimento: non c’è un Poirot, una Miss Marple, uno Sherlock Holmes, pronto a svelare il mistero. Sì, certo, nell’immancabile villa di campagna (Easterham Manor) si è recato, alla vigilia di Natale, Nigel Strangeways, investigatore privato.
Strangeways però, pur dotato di intuito e di acume, è un protagonista molto umano. Non si tratta di un infallibile macchina da deduzioni, capace di suscitare tanta ammirazione quanta irritazione, scandendo con sufficienza un “Elementare, Watson”.
L’autore Nicholas Blake, pseudonimo di Cecil Day-Lewis (padre di Daniel Day-Lewis, vincitore dell’Oscar come miglior attore protagonista nel 1990 con “Il mio piede sinistro”) non cerca scorciatoie, e sembra suggerirci che la soluzione, malgrado le apparenze, è alla portata di Nigel, e quindi anche alla nostra portata.
Gli indizi, in effetti, a ben guardare, come ci scopriamo a riflettere alla fine del romanzo, erano tutti lì, a nostra disposizione. Il problema, più che coglierli, sta nell’interpretarli, nel tenerli insieme in un quadro coerente tanto con i dati di fatto quanto con la psicologia dei protagonisti.
A differenziare “Il caso dell’abominevole pupazzo di neve” dal classico giallo deduttivo anche una maggiore attenzione al contesto storico-sociale in cui la vicenda si svolge, che pure rimane sullo sfondo rispetto all’indagine.
Sullo sfondo, ma non in ombra. Così ritroviamo nelle accorate parole di Will Dykes, orgogliosamente membro della working class, la rabbia di chi vuol far sentire, finalmente, forte la sua voce e guarda con occhio interessato e partecipe a un nuovo modello, figlio della rivoluzione d’ottobre, rappresentato dall’Unione Sovietica.
E a scuotere nel profondo, ciascuno a suo modo, i personaggi c’è anche la Seconda Guerra Mondiale che è già cominciata e finirà per devastare, ancora una volta, dopo la Grande Guerra di inizio secolo, l’Europa.
In questa cornice caotica, disordinata e crudele, Strangeways, in collaborazione con la polizia, cerca di scoprire almeno un brandello di verità, anche perché dopo la morte di Elizabeth la spirale di violenza sembra non volersi arrestare.
Le ragioni di questa violenza, forse, vanno cercate lontano: in un’infanzia rubata, tra i brutti ricordi di ragazzi che sembrano aver avuto tutto e a cui, invece, è stato sottratto il bene più prezioso durante il processo di crescita: la spensieratezza.
Ci sarebbe di che infiammare gli animi, ma fuori nevica, e qualche fiocco finisce per posarsi anche sui tizzoni rosseggianti dell’indignazione, tramutando il grido in un sussurro tagliente, e la rabbia in un freddo proposito. Soltanto la Storia, forse, passata l’ora più buia, saprà offrire una speranza di redenzione.
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