Lo scorso 14 novembre è uscito il romanzo che segna l’esordio in lingua italiana di un interessate autore francese: Romain Slocombe. Grazie infatti alla traduzione di Maurizio Ferrara, L’Affaire Léon Sadorski (Éditions Robert Laffont, 2016 – già premio “Libr’à Nous” e candidato al prestigioso Premio Goncourt), è divenuto Il caso Léon Sadorski (Fazi Editore, 2019, collana “Darkside”). Il suo autore è un istrionico e sessantaseienne artista parigino con importanti trascorsi come illustratore, autore di fumetti, fotografo, disegnatore, pittore, regista e traduttore. Tra il 2000 e il 2006 si è affermato anche come autore di romanzi, scrivendone ben quattro che insieme formano la cosiddetta tetralogia de “La Crocifissione in giallo”. Nel 2011 ha scritto “Monsieur le Commandant” (premio Nice-Baie des Anges, premio Jean d’Heurs, Trofeo 813, selezione del premio Goncourt). Nel 2013 è stata la volta di “Première station avant l’abattoir”, che l’anno successivo gli è valso il “Prix Mystère de la critique” e il “Prix Arsène Lupin du meilleur roman policier”. Nel 2016 ha creato, appunto, il personaggio dell’ispettore Leo Sadorski, antisemita e collaboratore, stendendo questo romanzo a cui ne sarebbero seguiti altri due: “L’Étoile jaune de l’inspecteur Léon Sadorski” (2017), e “Sadorski et l’Ange du péché” (2018), entrambi in attesa di traduzione nei prossimi mesi o anni.
Con Il caso Sadorski ci proiettiamo in una Parigi cupa e violenta. Siamo nell’aprile del 1942, in piena occupazione tedesca. È la Francia di Vichy: bombardamenti inglesi, arresti arbitrari, traffici illegali e rastrellamenti di ebrei sono all’ordine del giorno. La popolazione è chiamata a scegliere se stare dalla scomoda parte dei partigiani o da quella più confortevole dei collaborazionisti. L’ispettore Léon Sadorski, antisemita e anticomunista, ma ancor prima camaleontico opportunista, riesce a muoversi in una zona grigia nella quale dispone di un certo potere, per esempio quello di chiudere un occhio su certi ebrei, in cambio di mazzette.
Con tutta evidenza il personaggio è ispirato a quello reale di Louis Sadosky, quarantaduenne a capo del “dipartimento ebraico” presso la direzione generale dell’intelligence (RG) del quartier generale della polizia di Parigi.
Se Sadosky venne sospettato di aver partecipato alla sorveglianza dei circoli nazisti alla fine degli anni Trenta, anche il suo misogino e perverso alter-ego Sadorski viene arrestato dalla Gestapo e spedito a Berlino. A quel punto, imprigionato e interrogato col timore di non poter rivedere Parigi e la sua adorata moglie Yvette, gli aspetti deteriori del suo carattere emergono con prepotenza. L’ispettore – antieroe per eccellenza – intravede nel collaborazionismo l’occasione per incrementare la sua autorità e ottenere nuovi privilegi, la possibilità di dare sfogo impunemente alle sue peggiori bassezze. Si trasforma così in uno zelante e disgustoso collaborazionista, capace di qualsiasi abuso e atrocità.
Il caso Sadorski potrebbe definirsi un thriller/noir storico, perché va ben oltre la fiction e l’indagine poliziesca, essendo caratterizzato da una (fin troppo) importante e minuziosa documentazione e ricostruzione storica. L’ambientazione e la consapevolezza storica del periodo sono però importanti per comprendere la rabbia e l’odio, la vendetta e la violenza, la crudeltà e il cinismo che permeano il protagonista e altri personaggi. È il nazismo. È la guerra. Sono le atrocità di questo periodo storico. Non a caso il romanzo è anticipato da un’avvertenza:
Né l’autore né l’editore approvano i discorsi tenuti dal personaggio principale di questo libro. Ma essi rispecchiano i suoi tempi, così come possono annunciare quelli che ci aspettano, poiché «il ventre che ha generato la bestia immonda è ancora fecondo».
Che si condivida o meno quest’oscuro e pessimistico presagio sul futuro, è sul passato che non c’è spazio per equivoci. Dopo aver terminato questo libro alcuni interrogativi sulla natura umana e alcune immagini raccapriccianti, abominevoli o struggenti, resteranno impresse e continueranno ad accompagnarci nel pensiero, un po’ come accade a chiunque abbia avuto la fortuna e il coraggio di visitare un campo di concentramento. Si respira lo stesso drammatico e nauseabondo odore. La differenza è che qui – se non altro – il brivido è diluito in 442 pagine di ottima narrativa.
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