Secondo Bernhard Gunther, protagonista de “Il criminale pallido”, i berlinesi “hanno i polmoni rovinati perché l’aria è malsana, e perché fumano troppo, e un senso dell’umorismo che sembra crudele se non lo si capisce, e ancora più crudele se lo si capisce. Comprano mobili costosi in stile Biedermeier, solidi come fortini, e mettono le tendine alle finestre per non far vedere cosa c’è dentro”.
Già da queste poche righe traspare l’amore cattivo e disperato che lega il protagonista alla sua città, di cui conosce ogni segreto e ascolta ogni sospiro, anche in quel momento, anche in quella fase di dolorosa follia.
Le Olimpiadi di Berlino del 1936, che facevano da sfondo al primo capitolo della trilogia di Philip Kerr (“Violette di marzo”) sono passate, il regime nazista non sembra più, come allora, per quanto in modo sfumato, alla ricerca di un riconoscimento e di uno spazio di manovra internazionale. Hitler si è fatto ancor più aggressivo, sia a livello di politica interna che di politica estera.
La persecuzione nei confronti degli ebrei si fa sempre più pressante e, durante il romanzo, giunge notizia dell’invasione dei Sudeti, che sarà seguita dalla conferenza di Monaco. La tragedia non è più soltanto alle porte: sta entrando prepotentemente nella vita di ciascuno, senza nemmeno bussare.
All’interno di questo contesto, allucinato e febbrile, a Bernhard Gunther, investigatore privato, tocca un altro caso. Sembra una torbida storia di ricatti, ma sotto la superficie si nasconde molto più di questo.
Ancora una volta, Gunther finirà per farsi coinvolgere personalmente, al punto da accettare di rientrare nella polizia, col grado di commissario, su indicazione diretta di Heydrich, capo delle SS. Gunther disprezza i nazisti, ma il timore delle conseguenze nel caso di un suo rifiuto non è l’unica ragione per cui accetta l’incarico, pur da un committente così sgradito.
Pensa così di poter fare giustizia, almeno per quel caso, mentre l’ingiustizia, attorno a lui, dilaga. Lo stile di Kerr è tagliente, ironico, brillante soprattutto nella scelta di paragoni e metafore creative e azzeccate. Vi si legge una forte analogia, a cominciare dalla figura del protagonista, con la tradizione del giallo e del noir americano, in particolare con Raymond Chandler e il suo Philip Marlowe.
La differenza sta forse nel fatto che Marlowe, sotto il pesante velo d’ironia e autoironia, si sente compiutamente americano, a suo modo parte del tempo e del luogo in cui si muove, vive, indaga. Per Gunther, necessariamente, non può essere così.
Romanzi come “Il lungo addio” o “Il grande sonno” di Chandler restituiscono, tutto sommato, uno sguardo apparentemente disincantato ma in realtà partecipe sul sogno americano, i suoi falsi miti e le sue autentiche speranze. “Violette di marzo” e “Il criminale pallido” di Kerr invece, catapultano il lettore nelle viscere più profonde dell’incubo tedesco.
Non c’è speranza di redenzione: potrà essere soltanto la storia, ma soltanto molto più tardi, a chiedere il conto. A Gunther, nuovamente commissario suo malgrado, non resta che combattere, comunque, la sua solitaria battaglia.
Consapevole della propria insufficienza, ma orgoglioso, in ogni caso, di portare alla luce, prima di ulteriori drammatiche conseguenze, almeno una terribile verità: quella che sta dietro a una lunga catena di delitti. E cedendo talvolta anche alla vendetta, visto che in quel momento, su quel genere di storia, chiedere giustizia sembra davvero troppo ambizioso e pericoloso. Anche per un osso duro come lui.
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- Kerr, Philip (Autore)
Articolo protocollato da Damiano Verda
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