La statale 117 è una cicatrice che taglia il deserto dello Utah. Ben Jones è un camionista costantemente sull’orlo della bancarotta, che la percorre ogni giorno e sa bene che “non è il paradiso né l’inferno, solo un rettilineo che gli passa in mezzo”. Nelle sue consegne quotidiane, Ben incontra l’umanità varia e insolita che popola la solitudine di questo desolato angolo di mondo, “bislacchi topi del deserto rintanati nelle loro roulotte di alluminio che scintillavano nella distesa bruna, come palline di carta stagnola attaccate all’orizzonte”.
Durante le sue giornate, il camionista incontra una galleria di personaggi insoliti e struggenti al tempo stesso, come il Predicatore John, che attraversa il deserto trascinando un’enorme croce di legno e condivide con lui sigarette immaginarie, oppure i fratelli Fergus e Duncan Lacey, che vivono all’interno di vagoni ferroviari abbandonati e hanno seppellito nella sabbia un passato misterioso.
Una tappa fissa del suo viaggio è un ristorante che rimane sempre chiuso, il “Premiato Diner del Deserto”, con un juke box Wurlitzer e un pavimento a scacchi che viene calcato solamente dal vecchio e solitario Walt, un vecchio scontroso che vive tra motociclette e antichi ricordi.
Un giorno, nei pressi del diner, il camionista scopre una casa in mezzo al deserto: tra le sue mura, una donna suona nuda un violoncello dalle corde invisibili. L’incontro fortuito darà il via a una girandola di avvenimenti e incontri misteriosi che sconvolgeranno la sua vita. L’uomo, che ha sempre trattato la curiosità “come un cane che dorme in una discarica”, ovvero senza scavalcare la recinzione, si troverà coinvolto in un furto internazionale e dovrà affrontare violente colluttazioni e morti dolorose.
Il diner nel deserto è l’esordio letterario di James Anderson, uno scrittore americano originario di Seattle. Il libro sfugge di per sé alle categorizzazioni: ha la struttura di un thriller, ma la vicenda si dipana con un taglio descrittivo e introspettivo, delineando paesaggi e personaggi in modo vivido e coinvolgente. Il risultato è che, come in ogni thriller che si rispetti, non si vede l’ora di scoprire il mistero, ma al contempo si esita nel divorare le pagine per la paura che la magia e la bellezza del mondo creato dall’autore possano finire.
L’opera di Anderson si inserisce nel solco della tradizione hard boiled: non a caso, il libro è dedicato a una serie di grandi autori e ai loro detective, quali Ross Macdonald, James Crumley e Stephen Cannel. Al contempo, però Anderson introduce una nota di freschezza e novità, spostando l’accento dalla trama allo scenario: il vero protagonista del libro non sono le contorte vicende umane, ma il deserto stesso, “che, alla fine, si prende sempre quello che vuole”. Un deserto che, come spiega il Predicatore, non è soltanto privazione di acqua e di persone, ma anche, e soprattutto, un luogo in cui “abita la luce”. È proprio questa luce, spietata e vivida, che conferisce vita e profondità ai “topi del deserto”, regalandoci un affresco indimenticabile.
D’altra parte, il diner nel deserto non è semplicemente una cartolina spedita da un luogo remoto ed esotico. L’autore, miscelando con abilità disperazione e ironia, violenza e affetto con uno stile secco e diretto, riesce a regalarci qualcosa che assomiglia da vicino alla vita e che genera in modo quasi immediato simpatia e immedesimazione. Insomma, è un libro consigliato a chi non si accontenta di scoprire il colpevole all’ultima pagina, ma preferisce immergersi in un’esperienza più complessa.
Il romanzo è autoconclusivo, ma è anche il primo capitolo della “Serie del Deserto”. Per chi vuole continuare il viaggio nella polvere e nella canicola, l’editore Enne Enne pubblicherà a breve il secondo romanzo di Anderson dal titolo “Lullaby Road”.
Recensione di Gian Mario Mollar
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