Non è facile parlare di un libro come Il dolce sorriso della morte, ultimo nato nella grande famiglia editoriale diretta dal bravo Fabrizio Carcano e quarto appuntamento thriller nella città di Milano.
Le difficolta nascono dentro di me, non dalla lettura, che è avvincente e crea dipendenza per la semplicità dei personaggi, l’ambientazione borghese – tra la periferia-bene della metropoli e gli open spaces vetrati di una grande azienda alle TreTorri di CityLife. Una storia di gente qualunque che vive senza scosse ne’ grandi avvenimenti, tra il supermercato, la coda in Posta a pagare le bollette, la discussione di laurea della figlia. Tra tutti loro c’è un Marco qualsiasi che ha paura della sua ombra, vive ancora con mamma’ e a 37 anni non ha ancora baciato una donna. Un perdente, un emarginato, uno che nessuno inviterebbe neppure per una birra. Nel cui animo si nasconde un passato di violenza e cova un braciere di risentimento.
Al master di vittimologia che sto frequentando uno dei professori un giorno ci ha chiesto se sapessimo quanti corsi sono aperti ora in Italia sul tema del serial killer e quanti sono i casi registrati realmente nel nostro Paese. La risposta ci ha stupefatto: 98 corsi e l’ultimo omicida seriale ufficiale che abbia agito sul territorio è Donato Bilancia. Quanti anni fa?
Eppure l’interesse della gente non scema, anzi. Cosa affascina e al contempo respinge di questa figura?
La risposta di Roberto Ottonelli sta in questo romanzo. Sono, o potrebbero essere, in mezzo a noi, gente all’apparenza normale, magari schiva ed insignificante, la cui furia omicida possa slatentizzarsi d’un botto, senza apparente preavviso ne’ motivazione. Ma una volta esplosa, deflagrare e procedere senza sosta in un ammonticchiare cadaveri sia tra chi ha un debito di maleducazione verso l’omicida sia, e qui sta il corebord di questa storia, verso chi invece vanta un credito di riconoscenza. Perché un serial killer può disinteressarsi della distinzione. E poi perché potrebbe non esserci distinzione tra lui e chi indaga su di lui. Convivere col male, come capita al delinquente, è abitudine anche di chi deve combatterlo quel male e assicurarne i responsabili alla giustizia. L’adagio “costi quel che costi” può avvicinare talmente questi due poli dello stesso circuito da mandare corrente alternata, per cui l’assassino resta lucido e l’ispettore perde la testa.
Un romanzo crudo, scritto per soggettive alternate tra Marco e l’ispettore Barzagli (solo il penultimo regala un tributo alla vedova Bordoni), pagine abrasive urticanti, in cui il lettore inorridisce al cospetto della violenza fisica, ma resta probabilmente impassibile di fronte a quella psicologica che invece molti patiscono. Tra i due protagonisti Ottonelli divide la gente tra i terrorizzati dal male (come la madre di Marco) e i voyeuristi del male (come i suoi colleghi a caccia di dettagli). Uno scontro titanico tra complessi di inferiorità e manie di persecuzione, colato in un’atmosfera soffocante di un’afa appiccicosa che sa di vomito acido.
La scrittura di Roberto è come lui (e qui sta la difficoltà: parlare del libro conoscendone personalmente l’autore). Semplice, generosa, modesta, ricettiva di suggestioni e suggerimenti. Un uomo buono che scrive di atrocità, e lo aveva già fatto con Credi davvero che sia sincero, dedicato ad una amica di sua moglie, uccisa dal fidanzato.
Questo è il segreto del successo di Ottonelli, di quello che ha e di quello che merita: sa di cosa parla perché frequenta il male attraverso la associazione difesa donne, che ha fondato, e le storie a cui i genitori che si offrono affidatari giocoforza vengono a conoscere.
Forse lui non amerà il finale della mia recensione perché ho rivelato questa apparente dicotomia, e ci ho riflettuto molto prima di scriverlo. Ma sono dettagli che non gli ho carpito in confidenza e, soprattutto, che ai miei occhi lo rendono il grande (uomo e scrittore) che è.
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