“Non aveva mai avuto paura di morire, Binda, né di subire i guai dell’ingiustizia: il suo cruccio era sempre stato quello di non vivere”. Con questa sapiente pennellata, Piero Colaprico, caporedattore di Milano per “La Repubblica” e ormai da più di vent’anni anche romanziere di successo, ci restituisce, in un’istantanea, la figura del maresciallo dei carabinieri (prima) e investigatore (poi) Binda: ancora una volta protagonista, anche della sua ultima fatica “Il fantasma del ponte di ferro”.
La vicenda si dipana, in larga parte, in flashback: la scena si apre in una Milano anni ’80, una “Milano da bere”, ma il caso centrale, che risulterebbe, già alla scena di apertura, chiuso, è soltanto formalmente risolto. In realtà cela ancora molti misteri, e molto dolore: risale agli anni ’70, anni in cui Binda era ancora un maresciallo dei carabinieri.
E da maresciallo si era trovato faccia a faccia, in un freddo sabato di inizio gennaio, l’indomani della morte di Dino Buzzati, con un omicidio efferato e inspiegabile: un ballerino spiantato trovato decapitato sotto il ponte Richard Ginori, ai Navigli. Vestito da donna e con in bocca un biglietto recante una scritta in russo che, traslitterata nell’alfabeto latino, suonava dragosteen, ovvero gioiello, cosa preziosa.
Non si tratta di un caso semplice, il delitto ha origine da dinamiche profonde, oscure, che molto hanno a che fare con la guerra fredda, che vede in Italia uno dei teatri di maggiore tensione. Così ai ladri, ai delinquenti e agli assassini si mescolano le spie e, a tenere insieme il tutto, una cieca e spietata avidità.
Binda è uomo di mondo, di ottima cultura: anche se fatica ad ammetterlo, sa che la verità, la verità tutta intera, gli è, con ogni probabilità, preclusa. E allora cerca di comportarsi, come in diversi gli riconosceranno, lungo la vicenda, come un uomo prudente, ma giusto. Non rinuncia cioè a quei frammenti di verità che sono alla sua portata, nella speranza che, almeno in futuro, si presenti l’opportunità di raccogliere quelli mancanti, completando il mosaico: un po’ per caso, un po’ a causa di antiche rivalità tra spie e anche, forse soprattutto, perché il muro di Berlino si farà con gli anni sempre più pericolante, sarà proprio così.
Nelle pagine di Colaprico lo stile asciutto e duro che, complice anche l’ambientazione milanese, ricorda da vicino Scerbanenco si mescola con eleganza a un ampio respiro narrativo, condito anche da diversi riferimenti culturali e letterari. Si parte da un episodio: c’è un caso da risolvere, come da tradizione di un classico romanzo giallo. Seguendo l’indagine però si finisce, attraverso le sottili sfumature che caratterizzano anche i personaggi minori, per raccontare un ambiente: una storia tutto sommato individuale dice qualcosa anche di una storia collettiva, quella di un’Italia (e di un mondo) che cambia.
E Binda guadagna la stima e l’affetto del lettore (in modo in fondo non dissimile dalla figura del dottor Richard Walker protagonista del film “Frantic”, di Roman Polanski) proprio perché non accetta di essere vittima o complice di una macchinazione che lo sovrasta: lotta come può, anche perdendo qualche battaglia, ma riservando sempre alle ragioni dell’individuo, alla salvezza e alla dignità della persona la priorità assoluta che guida le sue azioni. Per questo, mentre ci si appassiona alla vicenda e gli eventi precipitano verso il colpo di scena finale, ci si ritrova a fare il tifo per lui e per la sua battaglia consapevole, in nome di una verità finalmente possibile.
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