Prosegue la collana di gialli ambientati nelle zone dell’Himalaya scritti da Bernard Grandjean e pubblicati in Italia dall’editrice O-barra-O. In questo caso il romanzo si intitola “Il medico di Lhasa” ed è tradotto da Andrea Da Glossari. L’investigatrice della storia che sto per raccontarvi è sempre Betty Bloch, giovane donna francese con la passione per gli studi tibetani, ormai diventata professoressa all’Università di Calcutta e in questo caso in soggiorno prolungato in Nepal, a Katmandu, dove deve curare il trasloco di un’antica biblioteca di scritti tibetani.

Mentre Betty passeggia per le strade della capitale nepalese, assiste al rapimento di una giovane ragazza del luogo. Non fa in tempo a rendersi conto dell’accaduto che si avvede che la giovane ha lasciato nel luogo del sequestro un bellissimo stendardo tradizionale tibetano, un thangka. Si tratta di qualcosa che dev’essere molto prezioso, per la qualità delle finiture con cui è stato lavorato. Comincia così una serie di peripezie che permettono a Betty di risalire alle origini del manufatto e di svelare l’intrigo che ha causato il rapimento. Alla fine, ovviamente tutto si concluderà bene, ma al prezzo di diversi delitti che come sempre caratterizzano gli scritti di questa collana.

Grandjean usa il suo solito stile fresco e accattivante per portarci nelle bellezze della zona himalayana. “Il medico di Lhasa” è in ogni caso forse il romanzo più rocambolesco e ricco di colpi di scena dello scrittore francese, anche se il crime in quanto tale è forse meno presente in quest’opera. Betty ne è la protagonista assoluta attorno alla quale tutto ruota e, a differenza delle altre puntate della serie, tutto avviene in Nepal e non c’è la componente “on the road” che nelle altre opere aveva accompagnato gli scritti di Grandjean. Fa invece un trionfale ingresso nelle opere dello scrittore francese la medicina tibetana (come si evince ampiamente dal titolo), che ne diventa assoluta protagonista.

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Come negli altri romanzi della collana, gli intrighi e le peripezie sono scuse per parlare del Tibet e, in questo caso in particolare, per gettare ancora più luce sulla vastità della cultura tibetana e sui millenari saperi legati alla medicina naturale e all’arte della cura del corpo (e dell’anima) con le erbe. Tradizione millenaria talvolta messa in crisi da chi utilizza queste profonde conoscenze per cercare di trarne profitti illeciti. Secondo Grandjean, l’enorme valore sedimentato nella cultura tibetana è molto legato a un uso sapiente e sobrio delle risorse naturali, che in “occidente” si dimentica troppo spesso.

Ma ovviamente non è solo questo il tema di quest’opera. Torna tra i protagonisti Poppy, la spia cinese che ne “Il mistero dei cinque stupa” aveva già insidiato la nostra Betty e, come allora, la scusa è buona per esaltare la lotta del popolo tibetano per l’indipendenza. E, da questo punto di vista, l’autore francese non è mai troppo schematico: spesso le insidie per il popolo tibetano derivano anche da chi non ha sufficientemente a cuore la lotta per la libertà.

C’è un altro protagonista del romanzo poi, ed è il thangka, questo stendardo tradizionale che spesso orna monumenti e luoghi sacri, ma che viene anche portato in una sorta di pellegrinaggio errabondo dai manipa, figure al confine tra preti e cantastorie che nelle strade delle zone himalayane divulgano le leggende e le tradizioni buddiste e tibetane. Sono manufatti talvolta di pregevolissima fattura, che oltre a un valore puramente estetico, sono ammantati di un alone di sacralità. Proprio questa è la bellezza di queste storie che ci racconta Grandjean, che attraverso la finzione e l’intreccio dal sapore thriller ci avvicinano e ci fanno appassionare a luoghi, comunità culture e tradizioni che troppo spesso vengono ignorate o discriminate.

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Articolo protocollato da Giuliano Muzio

Sono un fisico nato nel 1968 che lavora in un centro di ricerca. Fin da piccolo lettore compulsivo di tante cose, con una passione particolare per il giallo, il noir e il poliziesco, che vedo anche al cinema e in tv in serie e film. Quando non lavoro e non leggo mi piace giocare a scacchi e fare attività sportiva. Quando l'età me lo permetteva giocavo a pallanuoto, ora nuoto e cammino in montagna. Vizio più difficile da estirpare: la buona cucina e il buon vino. Sogno nel cassetto un po' egoista: trasmettere ai figli le mie passioni.

Giuliano Muzio ha scritto 152 articoli:

Libri della serie "Indagini nella regione dell'Himalaya"

Il medico di Lhasa – Bernard Grandjean

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