Camilla Lackberg e Henrik Fexeus chiudono la cosiddetta Trilogia del mentalista, con l’ultimo episodio intitolato “Il miraggio”, edito da Marsilio nella collana Farfalle (traduzione dallo svedese di Laura Cangemi). Miraggio è qualcosa che si vede ma che in realtà non esiste, un’allucinazione, un accomodare la realtà a nostro piacimento per evitare di vederne il lato spiacevole, poco edificante. Ed è esattamente questo il punto che vogliono affrontare Lackberg e Fexeus congedandosi da Mina Dabiri e Vincent Walder (il mentalista appunto), i due protagonisti della trilogia, che tutti noi lettori siamo costretti a salutare.
Ci sono strani ritrovamenti nei corridoi della metropolitana di Stoccolma. Mucchi di ossa perfettamente ripuliti, che riconducono a strani rituali macabri che interessano persone di visibilità pubblica e di successo. La polizia, almeno inizialmente, brancola nel buio. Identifica le vittime, seppure a fatica, ma non riesce a capire cosa leghi i diversi scheletri ritrovati. Ci vogliono le menti brillanti di Mina e Vincent per riuscire a decifrare l’enigma. Ci vogliono intuizioni, percorsi mentali, giochi matematici. Per una vicenda che avrà una fine non completamente edificante.
La narrazione è sempre molto scorrevole, con un intreccio che segue in particolare le vite di Mina e Vincent, con le loro traversie, problematicità, ossessioni. I rivoli che compongono l’affresco complessivo sono molteplici, il ritmo è tranquillo e rilassante nella prima parte, per aiutare a gestire la corposità dell’opera. Nel finale diventa incalzante, quasi travolgente. C’è molta oscurità in quest’opera, i sotterranei della metropolitana, gli interni delle abitazioni, degli uffici. Sono luoghi sempre un po’ inospitali, scomodi, a volte fortemente disagevoli. Un po’ di inquietudine esistenziale scandinava che accompagna le pagine. Non a caso la vicenda si svolge in inverno, nelle vacanze natalizie, un periodo freddo e, alla fine, con un sapore che è sì di festa, ma anche di solitudine, di costrizione a fare cose rituali che in realtà non sono quelle che vogliamo veramente fare.
Le famiglie che compaiono ne “Il miraggio” sono tutte in crisi. Rapporti logorati, abitudini consumate, tradimenti, infingimenti. Miraggi appunto. Oasi che si cercano di immaginare nel deserto della quotidianità. In questo senso, questo romanzo ci parla di una modernità che spesso ritroviamo nei thriller contemporanei. Chi scrive questo tipo di storie ci dice (mi chiedo se non ce lo abbia sempre detto, dalla rue Morgue in poi) che le consuetudini ci hanno stufato, che abbiamo bisogno di immaginare nuovi mondi dove realizzare noi stessi. Che la quotidianità uccide.
E c’è un altro topos abituale del noir che Lackberg e Fexeus vogliono indagare. Il potere che dilania. Abbaglia, attrae, ma poi finisce per distruggere. Siamo disposti a fare qualsiasi cosa per arrivare a comandare, a dominare, a dirigere. Ma poi, soli, sulla vetta, ci accorgiamo appunto che era tutto un miraggio. Che quello che troviamo lassù in cima non ci basta. Che non possiamo sacrificare la gente comune all’altare del nostro narcisismo. D’altro canto, la gente comune sa organizzarsi, gli ultimi, gli “invisibili” sanno unirsi e aiutarsi. Che siano proprio loro cui dobbiamo rivolgere lo sguardo? Quelli che ci salveranno?
Ho trovato nelle pagine di questo romanzo uno sguardo delicato e dolce nei confronti dei bambini e dei ragazzi. Spesso pesantemente sfruttati e sottomessi dalle ambizioni degli adulti. Sono piccoli esseri umani che si auto-educano, che sanno sbrigarsela da soli, anche perché noi adulti non abbiamo mai tempo per loro.
E ho trovato anche, per finire, uno sguardo più ampio alla Storia con la maiuscola. Il timore che la Svezia (l’Europa? l’Occidente? il mondo?) perda la sua proverbiale attitudine alla solidarietà, alla coesione, alla voglia di stare insieme e di stare uniti. Preda di miraggi, questi sì, veramente pericolosi. Perché più che illusioni sono tragedie che ritornano. Che non ci hanno insegnato nulla, che non abbiamo capito. Oppure che non siamo capaci ad allontanare, perché in fondo, noi piccoli poveri esseri umani, abbiamo sempre un po’ la voglia di vendere l’anima al diavolo.
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