“Il peso della neve” è il secondo romanzo di Christian Guay-Poliquin, autore rivelazione canadese nato nel 1982 nella provincia francofona del Québec. La sua opera d’esordio, “Les fils des kilometres” (Éditions La Peuplade, 2013), ha avuto abbastanza successo da essere ripubblicata in Francia (Éditions Phébus, 2015) e poi tradotta in inglese da Jacob Homel per la “Talon Books Editor” di Vancouver, col titolo di “Running on fumes”.
“Le poids de la neige” (“Il peso della neve”, appunto) è il sequel di quel romanzo. Pubblicato in Canada sempre con le “Éditions La Peuplade”, ha ottenuto subito prestigiosi riconoscimenti letterari nazionali, tra cui ricordiamo il “Governor General’s Literary”, il “Prix littéraire des Collégiens” e il “Prix France-Québec”. Dopo la prevedibile pubblicazione in Francia (Les éditions de l’Observatoire), è stata questa volta l’italiana “Marsilio Editori” a interessarsi di quest’opera, affidandone la traduzione a Francesco Bruno per la collana “Farfalle”. Grazie a una liaison italo-francese, tra l’agenzia letteraria parigina “L’autre agence” e quella milanese “Anna Spadolini”, dal prossimo 24 di gennaio è così possibile trovare questo romanzo negli scaffali delle principali librerie italiane.
La trama ruota attorno all’esilio forzato di un uomo, che – a causa di un incidente automobilistico – si ritrova bloccato a letto, ferito alle gambe. La sua situazione di infermo, munito di cannocchiale per osservare fuori, richiama alla mente il protagonista del famoso capolavoro di Alfred Hitchcock “La finestra sul cortile”, tratto dall’omonimo giallo dello scrittore Cornell Woolrich. Ma a differenza di Jeff Jefferies (interpretato da James Stewart), la finestra del nostro protagonista non affaccia su un cortile di condominio bensì su un luogo selvaggio e sublime, ma al tempo stesso ostile e fatale: un piccolo villaggio di montagna in cui manca l’energia elettrica da diversi mesi, immerso in quaranta centimetri di neve, distante circa un’ora di cammino dal paese più vicino e circa otto ore dalla città. Questo gelido isolamento carico di mistero e di tensioni evoca a sua volta il romanzo “Shining” di Stephen King, reso immortale dal regista Stanley Kubrick. L’Overlook Hotel del protagonista de “Il peso della neve” è una vecchia veranda, che funge da dépendance di una grande casa disabitata. Il protagonista si trova lì perché le circostanze ne rendono impossibile il trasporto in ospedale. Risulta perfino molto difficoltoso assicurargli adeguate cure mediche, ma piuttosto che lasciarlo morire viene affidato a Matteo, un enigmatico e misterioso anziano, che all’inizio dell’estate è rimasto anch’egli intrappolato nel villaggio a causa del black-out.
“L’inverno ruggisce, l’assenza di elettricità ci riporta molto indietro nel tempo, e l’inattività è il più minaccioso dei pericoli […] Forse non tornerò mai più a camminare, ho perso il gusto di parlare, ma non sono morto. Non ancora, quantomeno”.
Matteo accetta di occuparsi del moribondo in cambio della garanzia di un posto sul primo convoglio che in primavera partirà per la città, dove il vecchio ha lasciato la moglie gravemente malata.
“Il peso della neve” è la storia di una guarigione ma anche di un complesso rapporto tra due generazioni. Nello spietato inverno del Québec, fatto di notti e giorni che si susseguono tutti uguali, i due protagonisti emergono poco alla volta, si svelano con il contagocce, in una vera e propria guerra psicologica combattuta mentre sono schiavi delle circostanze e prigionieri l’uno dell’altro, all’interno di una convivenza obbligata nella quale entrambi – come due animali feriti in gabbia – sono costretti a fare i conti con istinti e bisogni basilari.
La scelta dell’autore di non attribuire neppure un nome al personaggio principale sembra quasi rispecchiare la condizione esistenziale di quest’ultimo (che è la stessa dell’intero romanzo), che si potrebbe definire pericolante, perennemente in bilico tra stadi estremi e contrapposti dell’esistenza: vita e morte, luce e oscurità, salvezza e condanna.
Se la scena simbolica del falò di libri ci è parso quasi un omaggio al film di François Truffaut “Fahrenheit 451” (o forse al romanzo di fantascienza di Ray Bradbury da cui il lungometraggio è tratto), la condizione ambientale estrema in cui si svolge l’intera vicenda potrebbe simboleggiare l’infinita sfida tra uomo e natura, e ci ha ricordato il film “Revenant – Redivivo” del buon Alejandro González Iñárritu, che presenta più di una analogia col romanzo di Guay-Poliquin.
Fin dalle prime pagine quest’opera si caratterizza per la sua prosa molto essenziale, al tempo stesso evocativa e suggestiva. La voce narrante in prima persona attribuisce ulteriore profondità a un testo già molto introspettivo, empatico e intimista, ma anche scuro e ipnotico. Il rischio che si corre in questi casi è quello di produrre una narrativa macchinosa e contemplativa, apatica e priva di ritmo. Qui invece l’immobilità sontuosa dello scenario innevato viene rotta dalla scelta della narrazione al tempo verbale presente, nonché dall’utilizzo massivo di frasi brevi, addensate in frequenti e rapidi capitoli, che riescono a sciogliere la soporifera distesa di neve e a conferire al racconto un calore e una cadenza da thriller. Man mano che il livello della neve s’innalza, centimetro dopo centimetro, con esso s’innalzano la suspense e la tensione, pagina dopo pagina. Con l’avanzare della trama si percepisce un malessere sotterraneo e strisciante, come un disordine e una violenza imbrigliati e soffocati dall’inverno ma pronti a esplodere ai primi segni del disgelo. Non a caso i due personaggi affrontano l’emergenza stagionale nella speranza che la successiva primavera sia salvifica, ma nel terrore che possa invece rivelarsi funesta. La presenza di questo male sotterraneo ci ha anche rammentato l’immaginario bosco innevato di San Giuda, del romanzo “XY” di Sandro Veronesi.
Il romanzo di Guay-Poliquin è un sottile thriller psicologico, ma anche un claustrofobico racconto di sopravvivenza dalle atmosfere noir, magistralmente tratteggiate nel candido e abbacinante riverbero della neve, che permea ogni pagina di questa tormentata e ansiogena storia.
“La neve continua a turbinare, Alzo gli occhi per orientarmi nella vastità del paesaggio. Intorno a me è tutto nero. Intorno a me è tutto bianco”.
A nostro avviso si tratta di un pezzo di narrativa pregevole, che meriterebbe l’elogio della critica e l’apprezzamento del pubblico.
Recensione di Leonardo Dragoni
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