La segnalazione odierna del Thriller Café è dedicata a Il rumore dei morti, opera in uscita la prossima settimana per Armando Curcio editore a opera di Giancarlo Umani Ronchi, medico legale e professore emerito all’Università la Sapienza di Roma, e Anna Vinci, scrittrice e giornalista. Si tratta di un libro che prende le mosse da tre veri episodi di cronaca rivisitati nella forma del romanzo: la morte del piccolo Jerry, un indifeso bambino cingalese, della prostituta Alba, innamorata di un camorrista e, infine, di un uomo bonario che dovrà fare i conti con la sua opaca vita parallela da trafficante di droga e accanito giocatore d’azzardo. A dare voce le loro morti, il patologo forense Federico Gerace, che con le sue autopsie a capire le dinamiche che hanno causato tanta sofferenza, perché «Nel silenzio profondo, il rumore dei morti – a saperlo ascoltare – diventa musica. I morti hanno fretta più dei vivi che giustizia sia fatta e di andare… dove devono andare».
Qui di seguito, vi riporto un estratto del romanzo:
Erano già trascorse più di due ore da quando si erano salutati e una certa apprensione era cresciuta. Federico restava convinto della sua scelta, tuttavia non poteva non considerare che, quando gli aveva affidato il caso, il dottorino, pur accettando con un moto di orgoglio e una certa baldanza, non era riuscito a controllare la propria agitazione. Con eccessiva disinvoltura gli aveva detto che prima di andare a casa sarebbe ripassato in obitorio e, nel caso il professore si fosse trovato ancora lì, gli avrebbe raccontato come si erano svolti i fatti. Gerace aveva convenuto che, se il lavoro l’avesse trattenuto, sarebbe stato utile scambiare qualche informazione. Non voleva dargli l’impressione che il suo interessamento era più paterno che professionale.
Santi rientrò che erano passate le nove. Gerace, appena lo vide, dopo che aveva bussato alla porta con tocchi ancora più lievi del solito, si rese subito conto che era affranto e l’impatto con la realtà era stato peggiore di quanto avesse potuto immaginare.
«Com’è andato l’incontro?».
«Lo vuole sapere?».
«Pietro, certo ti ho… ti ho pensato. Ho pensato al caso».
«Il convivente è rimasto tutto il tempo in silenzio».
«Dovrebbe parlare italiano».
«Infatti, ma sembrava che fosse capitato per caso in quella storia. La madre, lei, continuava a discolparsi, dicendo che amava il figlio tanto da riportarlo in Italia, che lavorava per i figli. Davanti alla richiesta di una spiegazione delle lesioni riscontrare sul corpo di Jerry, ha avuto un sussulto. Ho sperato che mostrasse dolore, disperazione, invece lo sguardo era… era cupo e con voce stridula ha solo ripetuto: “Che altro potevo fare? Che altro?”. Piangeva tanto. Piangeva sempre. Il sostituto procuratore ha insistito, le ha detto che il bastone da passeggio trovato accanto al materasso – neanche si era presa cura di nasconderlo – era quello che presumibilmente aveva lasciato i segni sul corpo del figlio, poi ha proseguito acquisendo il fatto come certo e le ha chiesto perché lo avesse colpito, se l’avesse colpito solo lei. E quella, niente, lo guardava come fosse cieca, annuendo leggermente».
«Tacendo, ha ammesso le botte. Ciò facilita il compito dell’accusa. Le cicatrici lineari allungate che abbiamo riscontrato sul corpo rispondono alla dinamica dei fatti. Siete riusciti a sapere se fosse solo lei a infierire sul figlio?».
«Ho quasi paura di pensare che addirittura picchiasse il figlio per far stare in pace il suo uomo, o forse temeva, essendo lui spesso ubriaco, che succedesse qualcosa di peggiore: peggio della morte del ragazzino, forse era per lei la perdita dell’uomo. In ogni modo non si rendeva conto della gravità del fatto. Da non credere. Di fronte poi alle insistenze del sostituto procuratore per capire quanto è andato avanti quel massacro, lo ha guardato a lungo. Giuro, professore, sembrava cieca. Infine ha esclamato esasperata: “Ero stanca e lui non smetteva, non smetteva”».
«Siete riusciti a capire esattamente perché lei non l’ha curato, il perché delle sole pomate? I dolori e il pianto del bambino avrebbero potuto essere evitati con la giusta cura».
«Sul discorso cura non rispondeva, sembrava ipnotizzata, insisteva su questa idea del pianto; ma perché avrebbe dovuto smettere, quel povero bambino? Perché, perché?».
E Santi sembrava rivolgere la domanda a qualche divinità che però era rimasta lontana, anche dai Dogon dell’Africa e dai loro canti compassionevoli.
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