Il tempo della vendetta è il nuovo romanzo della regina del thriller islandese Yrsa Sigurðardóttir recensito oggi al Thriller Café.
Thröstur è un ventenne cupo, scontroso, in collera col mondo intero. Un pesante fardello grava sul suo passato e rende quasi impossibile, tanto a lui quanto alla sorella Sigrún, guardare al futuro con serenità. Il padre Jón è stato condannato per violenza e omicidio. A rendere se possibile ancora più orrendo il crimine, il fatto che la vittima, Vaka, fosse una bambina.
Dieci anni sono passati dalla tragedia nel momento in cui, inaspettatamente, due avvenimenti sembrano riportarla alla luce, la fredda luce di un’Islanda tanto cupa quanto suggestiva, spettinata da un vento scontroso.
Jón viene rilasciato, avendo usufruito di uno sconto di pena. Viene dissotterrata inoltre la cosiddetta capsula del tempo, che Thröstur, ancora bambino, aveva sepolto. La capsula del tempo non è altro che, potremmo dire, un contenitore di messaggi in bottiglia: le maestre chiedono a ogni bambino di scrivere una previsione sul futuro, su ciò che accadrà nei successivi dieci anni.
Poi la capsula viene sepolta, per essere dissotterrata dieci anni dopo, e avere occasione di verificare le previsioni, che potranno spesso strappare una riflessione o un sorriso. Il messaggio di Thröstur però, ispira invece inquietudine, se non paura. Indica sei uomini, usando soltanto le loro iniziali e prevede che, a distanza di dieci anni, saranno morti. E lascia ancor più atterriti il fatto che la profezia non sia espressa con paura, ma quasi con gusto: “Le seguenti persone moriranno: K, S, BT, JJ, AV e I. Nessuno sentirà la loro mancanza, io meno di tutti. Non vedo l’ora”.
Si potrebbe essere tentati di derubricare la faccenda a uno sfogo, per quanto difficilmente comprensibile, di un bambino esposto alla violenza e alla vergona troppo presto e senza colpa: materia da psicologi, non da poliziotti. Il fatto è però che le previsioni di Thröstur cominciano ad avverarsi e una scia di omicidi, uno più efferato dell’altro, insanguina Reykjavík.
Così a occuparsi della vicenda non sarà soltanto la psicologa infantile Freyia, ma anche l’agente Hudlar, un tempo capo dipartimento e ora declassato ad agente semplice. Tanto i suoi modi non molto diplomatici quanto il passato legame sentimentale con Freyia complicheranno la soluzione di un caso già tutt’altro che semplice. Hudlar però non si darà per vinto, cercando di seguire, senza guardare in faccia nessuno, l’esile filo che potrà, forse, condurlo alla verità.
La scrittura di Yrsa Sigurðardóttir, come sempre, bada più alla sostanza che ai fronzoli, sia per quanto riguarda la costruzione dell’intreccio che in termini stilistici. La narrazione è serrata, inframmezzata soltanto da alcune piccole pause di riflessione che ci permettono di osservare i personaggi, a cominciare da Freyia e Hudlar, con uno sguardo più largo. Di inquadrarli cioè non soltanto come i protagonisti di un giallo, ma come due persone che ci pare di conoscere, tese nello sforzo di cercare un po’ di giustizia là dove ipocrisia e violenza la fanno da padrone.
Potremmo dire che ciò che più colpisce, in un certo senso, è la tridimensionalità del romanzo: osserviamo da vicino, e da diversi punti di vista, i fatti, senza il distacco che non di rado accompagna la fiction. E forse anche per questo il sentimento di orrore e di rabbia si fa più vivo e vicino, a mano a mano che emergono torbidi dettagli, e si intuisce che Jón non è l’unico mostro di questa storia. Fino a un finale del tutto imprevedibile, con un paio di colpi di scena che lasciano il segno.
Ti è piaciuto l'articolo? Iscriviti alla newsletter
Inserisci la tua email e riceverai comodamente tutti i nostri aggiornamenti con le novità, le anticipazioni e molto altro.
Compra su Amazon
Nessun prodotto trovato