In una Barcellona inedita, le armoniose spirali di Gaudì si deformano creando volute psichedeliche in virtù dello stile narrativo destrutturato di Cristina Fallarás che ci racconta la storia delle niñas perdidas o, per meglio dire, olvidadas.
Titolo: Innocenti (Las niñas perdidas)
Autore: Cristina Fallarás
Editore: Feltrinelli – FoxCrime
Traduttore: Marco Amerighi
Anno: 2013
Victoria Gonzales è un’investigatrice privata che viene ingaggiata da un anonimo committente con l’incarico di ritrovare due sorelline di 3 e 6 anni, scomparse mentre erano con la madre affidataria al parco cittadino. Accetta l’incarico senza andare troppo per il sottile: trentamila euro sono una bella cifra per chiunque, figurarsi per lei che deve tirare avanti con quel lavoro ingrato e si ritrova anche incinta di chissà chi. Non si sogna di rifiutare neanche dopo le forti perplessità del socio Jesùs, al quale non sfuggono né le contraddizioni né la pericolosità di quell’incarico. Victoria quindi percorrerà praticamente da sola l’irta salita verso l’agghiacciante verità celata dietro la scomparsa delle bambine. E pagherà alla sua cocciutaggine un prezzo altissimo.
Ho iniziato la lettura di Innocenti piena di entusiasmo e aspettativa, perché avevo avuto modo di leggere alcune dichiarazioni di Cristina Fallarás in merito al tema della pedofilia e mi aspettavo che nel libro si desse voce anche alle piccole e sfortunate protagoniste. Invece, stando alla stampa spagnola, la vera protagonista della novela negra che nel 2012 ha vinto il premio Hammett (spagnolo; da non confondere con l’Hammett Prize americano) è la rabbia. El Pais in proposito è lapidario “Cristina Fallarás rappresenta la nuova generazione di giallisti spagnoli, quelli per i quali è la rabbia a guidare tutto.”
Se per “rabbia” si intende un desiderio di denuncia sociale rabbioso e potente, allora la rabbia dell’Autrice non è indirizzata a colpire i colpevoli di reati di pedofilia, ma a deprecare il comportamento di madri più che imperfette, irresponsabili.
La maternità, la gravidanza, la responsabilità del divenire madre di un altro essere, sono questi i temi intessuti nella trama, dalla quale scaturiscono dolenti figure femminili che si riproducono quasi per partenogenesi, che non sono solidali loro e che non proteggono i più deboli. Ne scaturisce il ritratto di una società di adulti senza morale che usa i più piccoli come perverso trastullo personale o, quanto meno, bieco capro espiatorio affettivo.
Per quanto riguarda il personaggio di Victoria, poi, si tratta indubbiamente di un investigatore sui generis: è un’alcolista e una ex tossicodipendente, è una persona che ha bisogno di scaricarsi uccidendo animali di taglia proporzionale alla sua rabbia (il cane era roba grossa, il massimo), è un’irresponsabile a tutti i livelli (nessuna relazione affettiva, pessimi rapporti con la madre, è incinta ma forse non sa neppure lei chi è il padre e non fa nulla per proteggere la piccola che ha in grembo, tanto che la perderà), è anche abbastanza sprovveduta come investigatrice (fa supposizioni di colpevolezza su indizi risibili, Villa Alicia su tutti). Un personaggio peraltro che non cresce in consapevolezza e maturità neanche nel finale, negando di essere stata anche lei un genitore carente e quanto meno improvvido per la sua creatura. Probabilmente l’Autrice ha voluto crearne un perfetto alter ego di Adela, la mamma delle due bambine scomparse, per dare più forza al concetto che in fondo entrambe sono chiamate a fare i conti con le proprie esperienze di madri snaturate, figlie di madri snaturate.
Temi forti, indubbiamente drammatici, ma non sostenuti fino in fondo né dalla caratterizzazione dei personaggi né da uno stile narrativo piano.
Lo stile destrutturato a cui accennavo all’inizio, infatti, pur essendo una chiara metafora del caos emotivo che aleggia nell’anima delle protagoniste, rende accidentata la lettura. Se ciò non bastasse, anche il fattore grafico contribuisce non poco a furviare: non c’è distinzione, infatti, tra il “parlato” e il “pensato”, tanto che spesso si è costretti a tornare a rileggere dall’inizio della pagina per individuare con certezza “chi” dice o pensa “cosa”.
Le pagine migliori a mio avviso sono quelle relative ai deliri di Adela sotto la cupola dell’Hospital de la Sante Creu i Sant Pau, tetra testimone architettonica dell’iperbole di una mente distrutta dalla droga e di un’anima annientata dal senso di colpa.
Le peggiori, quelle relative alle istruzioni per uccidere gli animali, perché di nessuna utilità alla narrazione, risultando scollegate dal contesto e assumendo un mero sapore sensazionalistico. Non rinvengo, infatti, alcun parallelismo tra le violenze sulle piccole (scientificamente poste in essere per profitto economico, legato a fruitori dal piacere perverso) e quelle sugli animali (considerati alla pari di un antistress della protagonista). Quindi, come non è necessario essere genitori per avere orrore degli snuff movie aventi come protagonisti dei bambini, non lo è altresì essere animalisti per provare ribrezzo riguardo a certe descrizioni.
Concludendo, che Cristina Fallarás abbia voluto stupire, ci può stare ma che il risultato sia un libro non facile né stilisticamente né concettualmente, è più che probabile. E’ talmente tutto portato al limite e sopra le righe da assumere connotati fantastici e scorrelati dalla realtà, rendendo inefficace la denuncia sociale. D’altronde in una narrazione in cui ogni personaggio è altro da sé, ogni personaggio e ogni relazione sono alterati e deformati, il richiamo ad Alice nel Paese delle Meraviglie è inevitabile, ma non lusinghiero.
Mi piacerebbe molto conoscere le opinioni degli avventori del Thriller Café in proposito…
Innocenti, di Cristina Fallaras: acquistalo su Amazon!
Ti è piaciuto l'articolo? Iscriviti alla newsletter
Inserisci la tua email e riceverai comodamente tutti i nostri aggiornamenti con le novità, le anticipazioni e molto altro.