La Giuria letteraria del Courmayeur Noir in Festival ha assegnato l’importante Premio Giorgio Scerbanenco – La Stampa 2015 per il Miglior Romanzo Noir italiano edito a “Cosa resta di noi“, con la seguente motivazione: «Per aver messo al centro la crisi di coppia sullo sfondo della provincia italiana, raccontata con efficace crudeltà, riuscendo ad allargare i rigidi confini del genere noir, con una scrittura sorvegliata, attenta alle più nascoste motivazioni dei personaggi»
Abbiamo colto l’occasione, per intervistare l’autore Giampaolo Simi, chiedendogli di parlare della suo ultimo romanzo, del “noir” e di molti altri argomenti …
[D]: Benvenuto su Thriller Cafè, Giampaolo. Domanda di rito ma inevitabile. Che effetto fa vincere un premio importante come il Premio Giorgio Scerbanenco – La Stampa 2015 per il Miglior Romanzo Noir?
[R]: È stato il premio che, selezionandomi in finale più di quindici anni fa con uno dei miei primi romanzi, mi ha incoraggiato a continuare. E allora ho provato una gioia e una riconoscenza che partono da lontano.
[D]: I tuoi primi romanzi, Il buio sotto la candela (1996) e L’occhio del rospo (2001), sono caratterizzati da atmosfere arcaiche e leggende ancestrali, Figli del tramonto (1999) è un’immersione nella musica rock e i riti satanici. Nel 2000, per inciso, veniva pubblicato anche “Gotico rurale” di Baldini. Gli ultimi tuoi romanzi, Rosa elettrica (2007) e La notte alle mie spalle (2012) mi sembrano invece, caratterizzati da atmosfere più vicine al noir contemporaneo (anche se in modo del tutto personale). Che cosa è cambiato da allora a oggi? E come si è evoluto il tuo stile?
[R]: Be’, sono cambiato io e sono cambiati i tempi in cui viviamo. Basti pensare che un intero immaginario, come per esempio quello dei Supereroi, ha interamente trasmigrato dai fumetti al cinema, mentre l’horror come genere “adulto” è di fatto sparito in libreria (almeno in Italia). Il noir offre invece ancora territori di confine da esplorare squisitamente letterari. Essendo principalmente un’atmosfera o un’attitudine del narratore, lascia grande libertà d’invenzione e di ibridazione. Il noir scommette sullo stile, quindi sulla capacità evocativa di una sequenza di parole. Naturalmente spero che il mio stile si sia evoluto in quel senso: nel saper evocare al di là del semplice significato di una frase.
[D]: In Cosa resta di noi hai ambientato la storia in una stupenda Versilia autunnale e invernale, ed è evidente che Edo, protagonista e voce narrante del libro, la preferisce a quella estiva. E così anche per te? E quanto di autobiografico c’è di te in Edo?
[R]: Edo potevo essere io, se a un certo punto avessi accettato lavori stagionali, come capita più o meno a tutti, in Versilia. Invece il destino ha deciso diversamente. In lui ho raccontato una vita che poteva essere la mia.
[D]: Parlando della serie inglese Broadchurch, fai notare come la scoperta del colpevole sia affidata a un “evento” che non segue la logica; un evento “fuori dalle regole del gioco fra l’omicida e il detective, fra il lettore e il narratore” (Come il giallo può sopravvivere all’indagine -2). Umberto Eco, nel suo saggio “Opera aperta: forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee” (1962), tratta in modo approfondito questo argomento, contrapponendo appunto alla «struttura “tonale” del romanzo giallo» un modo diverso di narrare. Parlando de L’eclisse di Antonioni, Eco fa notare che «nessun parametro psicologico vale a spiegare la situazione: essa è cosí proprio perché non è possibile far funzionare parametri unitari, ciascun personaggio è frantumato in una serie di forze esteriori che lo agiscono.» In Cosa resta di noi, due di questi “eventi” sono l’infedeltà coniugale di Edo è la lettera di Anna?
[R]: Mi pare che anni dopo sul giallo Eco abbia cambiato idea. E mi pare anche che il cambiamento sia stato foriero di supremo godimento per i lettori. No, non esiste narrazione senza regole e parametri. Esistono narrazioni che affermano l’importanza e l’esistenza delle regole proprio nel momento in cui le infrangono (in quel momento infatti, ci rendiamo conto che per un certo periodo di tempo avevamo fatto tutti in un certo modo). Una cosa del tutto diversa, insomma. Credo che anche l’investigatore si confronti con elementi che non può governare. Descriverlo come onnipotente, onnisciente (è solo questione di tempo e capirà tutto) e predestinato alla vittoria è uno schema asfittico. I due elementi che tu citi rappresentano proprio questo: l’imprevedibilità, lo scarto improvviso, la componente fortuita che mette alla prova la nostra creatività e il nostro spirito di adattamento.
[D]: “Suo padre mi ha chiamato quattro giorni dopo per dire che era bellissimo e che senza dubbio non avrebbe venduto un cazzo.” La citazione si riferisce al romanzo scritto da Guia, la moglie di Edo. Non è l’unico riferimento, in Cosa resta di noi, al fatto che i “buoni” libri vendono poco, offuscati dai commerciali best-seller. Già nel 2013 (Come vendere centomila copie) sostituivi ironicamente la parola lettore con consumatore. Cosa intendevi?
[R]: La sostituzione l’hanno fatta alcuni grandi marchi editoriali, così come alcune grandi catene tentano di sostituire i librai con dei diligenti commessi. Vorrei premettere che i miei personaggi, non io, sono responsabili delle opinioni che esprimono. Personalmente non penso che i buoni libri vendano necessariamente poco, penso che anni fa un libro buono era un libro che ti poneva degli interrogativi, ti sfidava, ti sorprendeva. Ti portava dove non eri mai stato e ti chiedeva un po’ di pazienza, fiducia e fatica. Oggi un libro del genere non viene giudicato commerciale e, se viene pubblicato, non viene promosso. I grandi marchi sono convinti che il lettore odierno non voglia essere sorpreso, stupito o insidiato nelle sue certezze. Che non legga più nemmeno per svagarsi (che per me è un verbo bellissimo) ma per riposarsi e “staccare il cervello”. Per me è un errore catastrofico, perché la vittima di questo atteggiamento non è tanto l’impegno civile o la profonda riflessione esistenziale, ma il senso di avventura che una bella storia, anche ambientata in un monolocale, deve suscitarti.
[D]: “Siamo figli di troppe amnesie, l’immaginario spensierato dell’estate delle nostre vite si è sgretolato, come un sogno indotto da una pesante anestesia. Se ci guardiamo bene dentro, e alle spalle, vediamo nebbie e buio.” Il brano è tratto dal tuo “L’estate è finita”, inserito nel volume Il romanzo poliziesco, la storia, la memoria (Bologna, 2009). Il contesto nel quale era inserito (la storia passata del nostro Paese e il genere noi[R]: è molto diverso dalla storia raccontata in Cosa resta di noi, eppure, secondo me, questo romanzo è in qualche modo figlio di quell’articolo: l’estate è finita per l’Italia così come per i protagonisti di Cosa resta di noi, e la “sterilità” del rapporto tra Edo e Guia non è che il riflesso di una sterilità più ampia, politica, morale e sociale, di tutto il nostro Paese. Mi sbaglio?
[R]: Non l’avrei potuto dire meglio.
[D]: “Nella notte il peso silenzioso della neve aveva schiantato rami di pini che sembravano architravi. Il salmastro fa così. Fuori ti lascia intatto, ma dentro ti svuota e un giorno ti scopri di colpo fragile come le ossa dei vecchi.” Altra citazione, ma non potevo farne a meno. Si tratta di uno dei brani più poetici e simbolici del tuo romanzo. Vuoi spiegarci il senso profondo di questa frase?
[R]: Ma secondo te ce n’è bisogno? Non è meglio che ogni lettore ci si immerga da solo e la interpreti rispetto alla propria sensibilità? In fondo, in certi momenti il bello del gioco è questo.
[D]: Cosa resta di noi è stato definito un noir psicologico, ma in realtà è un romanzo difficile da collocare in un genere preciso, La storia di Edo e Guia mi ricorda piuttosto (soprattutto la prima parte) certi romanzi di Giorgio Saviane (Eutanasia di un amore, Il passo lungo), dove ciò che conta è lo scavo profondo dei personaggi e i loro inquietanti legami di dipendenza psicologica. Il fatto che la Giuria del Courmayeur Noir in Festival lo abbia premiato, pur uscendo dagli schemi tipici del poliziesco (“riuscendo ad allargare i rigidi confini del genere noir”), è il segno che finalmente stiamo superando l’arcaica e limitativa nozione di “genere letterario”?
[R]: Credo e spero di sì. Vorrei dire innanzitutto che per allargare un genere bisogna prima frequentarlo, amarlo, conoscerlo, altrimenti è un’operazione di vanità intellettualistica. In un certo senso mi sono già stupito di essere nella cinquina, ma quando ho visto gli altri libri finalisti ho capito che si trattava di un orientamento preciso. Non c’era alcuna detective story tradizionale, ma romanzi che affrontavano il genere partendo da lontano, di sbieco o in maniera ibrida ed eterodossa. Il segnale della Giuria, mi pare, è stato chiaro.
[D]: Negli ultimi dieci anni sempre più critici e scrittori hanno denunciato una “certa “stanchezza” della letteratura criminale”e come il noir “per preservare la sua vitalità di genere letterario e la sua valenza critica, debba forzare i propri confini e tradire i propri modelli”(Marco Amici, Massimo Carlotto e il linguaggio del Noir, 2012). Nel tuo blog, ribadisci il medesimo concetto: “Le indagini poliziesche per come sono oggi … sono più un ostacolo che uno strumento, sempre che vogliamo raccontare ciò che abbiamo detto di voler raccontare: gli abissi dell’animo umano o l’anima nera di una città.” (Come il giallo può sopravvivere all’indagine -2). Il titolo del tuo articolo si riferisce alla sopravvivenza del giallo, ma non è anche il contrario: il romanzo di genere non sta forse salvando il romanzo “alto”?
[R]: Non so se esista oggi un romanzo “alto”. So che nel giallo sono sopravvissute alcune malizie e abilità, guardate dall’alto in basso come rudimentali strumenti di una bottega artigiana, che invece oggi possono far parte del patrimonio di qualsiasi narratore. Alcune provengono dalla retorica classica, per cui non si capivano davvero certi nasi arricciati.
[D]: Sul tuo blog hai dichiarato: “unite amore e suspense in una storia sola e avete fatto bingo”. Nell’articolo parli soprattutto di film, L’amore bugiardo e Nella Valle di Elah, ma entrambi sono tratti da dei romanzi. Con Tutto o nulla (2002) hai iniziato (secondo me) il viaggio “verso la terra promessa dove Hitchcock e Jane Austen camminano a braccetto” (cito da RASOIO E SENTIMENTO), con Cosa resta di noi pensi di stare per raggiungerla?
[R]: È difficile capire a che punto si è di certi viaggi. E sicuramente è anche meglio non sentirsi mai arrivati. Però sì, la mia rotta è proprio quella.
[D]: Recentemente, sempre sul tuo blog (IL LIBRO-SVELTINA? PER ME NON È QUESTO SCANDALO), hai dichiarato che “lo scrittore di successo ha capito che ogni tot pagine deve ribadire, rammentare, fare piccoli riepiloghi. Alcuni libri arrivano nella top ten proprio perché concepiti per essere letti in pillole, dieci pagine al giorno, nei momenti di stanchezza della giornata. Se solo provi un’immersione continuativa, non resisti più di una mezz’oretta.” Sto leggendo un romanzo di questo tipo, in questo momento, e continuo a saltare righe su righe inutili. È davvero questo il futuro del libro?
[R]: Spero di no. Anche perché la riunione-riassuntino (il team investigativo che si ritrova in sala davanti alla lavagnona di sughero con le foto e le mappe dell’indagine) è un espediente tipico di una fiction tv che doveva misurarsi con stacchi pubblicitari e telespettatori che girottolavano per la casa facendo altro. Ecco, sarebbe triste che nella produzione letteraria si adottassero questi espedienti proprio nel momento in cui le serie tv non ne hanno più bisogno, perché oggi le guardiamo in maniera immersiva, senza fare altro, concentrati come se stessimo leggendo un romanzo.
[D]: Parlando del film francese “Due giorni, una notte”, diretto da Jean-Pierre e Luc Dardenne e interpretato da Marion Cotillard, hai dichiarato che stenti a vedere in Italia un registro realista Che cosa intendi?
[R]: Nella realtà la luce non è sempre perfetta, i volti non sono sempre a fuoco, le persone si parlano sopra e spesso ripetono le stesse cose più volte. È dura raccontare una storia così, ma loro lo hanno fatto con rigore e quel film funziona alla perfezione proprio per quello. In Italia l’attrice deve risultare sempre bella anche se è aggrappata al water dopo aver vomitato l’anima sua.
[D]: Nell’ottobre del 2009, in «Nazione Indiana», dichiarasti che “noir è una parola che avendo vissuto per più della metà del Novecento, ha conosciuto una certa stratificazione di significati. Ma mi sento di dire che quanto si è visto nel panorama italiano degli ultimi dieci anni, con questa parola, anche nel suo significato più estensivo, ha poco a che vedere.”. Già dieci anni fa, Filippo La Porta scriveva: “oggi basta che un personaggio ami passeggiare di notte perché si metta l’etichetta noir”(in Contro il Nuovo Giallo Italiano, 2006). Cosa pensi di questo uso indiscriminato del termine “noir”?
[R]: Che in copertina e sulle fascette fa figo, e allora si usa. D’altra parte, il noir è anche difficilmente identificabile come “genere”. È come il blues. Il blues nella sua forma pura è musica da intenditori, da patiti. Ma senza il blues, la musica che ascoltiamo tutti ogni giorno sarebbe completamente diversa. E i musicisti si dividono fra quelli che hanno il “blues” dentro, hanno quella certa malinconia, quel passo sornione e felino, e quelli che sono bravi egualmente, ma non ce l’hanno. Il noir per me è un mood, un modo di spezzare o di forzare alcune frasi, di evitare arrotondamenti o inutili funambolismi, di scartare dalla ruvidezza alla dolcezza in modo inaspettato e repentino. Emmanuel Carrère e Flannery O’ Connor hanno spesso questa capacità. Eppure sono due scrittori lontani nel tempo e nello spazio, due autori che nessuno definisce a tutta prima dei “noiristi”.
[D]: Da diversi anni leggo i romanzi su un eReader, mentre continuo a preferire il cartaceo per la saggistica. Sono passati quattro anni dal salone del libro del 2012, quando parlasti degli ebook (La rivoluzione non è l’eBook ma il romanzone a 9 euro). È cambiato qualcosa in questi quattro anni?
[R]: Credo si sia dimostrato che la leva del prezzo basso (ottenuto magari licenziando editor o sottopagando i traduttori) è stata una risposta dal fiato corto. Un libro non costa più di una cena in pizzeria o di una ricarica telefonica. Ma queste ultime due sono vissute come beni irrinunciabili, mentre la lettura no. L’unica via è valorizzare l’esperienza della lettura come spazio di libertà e di benessere. Una volta sperimentato, non se ne può fare a meno, il prezzo non è il problema (in Paesi dove si legge di più i libri costano anche di più).
[D]: Siamo uno dei paesi europei che legge meno. Da un’analisi condotta dall’Associazione italiana editori (Aie), risulta che quasi il 60 per cento degli italiani non legge neanche un libro l’anno. Cosa pensi della crisi editoriale in Italia?
[R]: La debolezza del mercato editoriale in Italia è strutturale. Non nasce oggi e neanche ieri. Se a questo aggiungi che per vent’anni ci hanno ripetuto ossessivamente che l’ignoranza è una virtù, i conti sono presto fatti.
[D]: Di fronte ad una crisi economica sempre più grave, a farne le spese sono le scuole, i musei, le biblioteche, gli studi umanistici ed artistici. Che cosa pensi della spending reviews che il nostro Paese infligge alla cultura?
[R]: Mi pare di vedere un texano che ritiene inutile spendere nel costruire pozzi di petrolio.
[D]: È tempo di salutarci e non può mancare un’altra domanda di rito. Progetti futuri?
[R]: Sto scrivendo una serie tv e, naturalmente, sono al lavoro sul prossimo romanzo.
Ringrazio di Giampaolo Simi per la sua disponibilità. È stato un piacere averlo qui a Thriller Cafè.
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