Quando l’argomento è ostico, o geniale, o raro e così discorrendo, le cose devo metabolizzarle bene prima di scrivere due righe e allora rileggo. Anche una due, tre volte di fila. Non ha importanza quante volte possano essere. L’importante è capire e dire “Bello” oppure “bravo” con persuasione.
In pratica è quello che mi è successo con “Le inutili vergogne” di Eduardo Savarese e solo alla terza lettura mi sono convinto che il romanzo è veramente una gran bella opera narrativa.
La tematica non è una di quelle che preferisco, parlo di gay, travestiti, di aspetti religiosi. Di solito con un bel thrillerazzo o un polpettone storico mi metto a posto, ma in questo romanzo, qualcosa mi ha sempre respinto e attirato contemporaneamente.
Una cosa strana. Questo perché sono troppe le cose, troppi i soggetti, troppe le interpretazioni e sempre nuove e sempre trattate bene, belle e soprattutto tante. Senza talloni d’Achille. Una quadratura perfetta della storia, dei suoi significati, delle sue comunicazioni attraverso personaggi completi sotto il profilo psicologico e soprattutto, molto soprattutto, narrata bene. E mi è difficile scrivere tante sono le molteplici chiavi di lettura di quest’opera.
Il romanzo è la storia di due vite che scorrono in parallelo, narrate in prima e terza persona.
Un protagonista è Benedetto. Cinquantenne medico dell’alta borghesia. Irreprensibile professionista. Uomo generoso e occupato nel sociale. Affettuoso con i suoi familiari. All’esterno. Nella realtà è un omosessuale di quelli che cercano l’amore senza complicazioni. Sesso di una notte consumato con sconosciuti. Benedetto è solo un nevrotico che vuole preservarsi agli occhi del mondo e quindi si adagia nella sua maschera di comodità.
L’altro protagonista è la zia Gilda, una donna postuma ma sempre presente nel romanzo con un suo diario, dove in modo ossessivo vive il suo rapporto con la religione cristiana e interagisce malamente con il marito.
Alla base entrambe le figure sono accumunate da due amori vissuti in parallelo. Benedetto e Gilda vivono la loro vita con la paura di amare il proprio disponibile e innamorato compagno. Vivono il loro amore sovrastati dalle regole sociali. Sovrastati dalla paura di amare, tradendo irrimediabilmente le attese dei propri partner. Sono amori tragici che durano in eterno. Sono amori sconfitti dalla facciata del sociale con i suoi rituali di apparenza che per sopravvivere si rifugiano nei dolci ricordi divenuti ossessivi, e placati dall’infervorazione religiosa o dal sesso illogico. Due estremi comuni. Due vite imperfette sotto ombrelli convenzionali. Quello della fede per zia Gilda, incentrato nella rinunzia della carne e votato all’astinenza purificatrice. Alla rinunzia purificatrice che è e deve essere felice, per avere l’esaltazione mistica come quella di Santa Brigida o Santa Chiara, e come queste sante, scrivere libri di sacro delirio. Un delirio costruito sulle basi della rinunzia e del sacrificio sull’altare dell’amore e su quello della propria identità “… Signore ti affido tutte le Occasioni perdute. Quelle aggredite che mi hanno travolto. E i rimorsi inutili in cui mi sono tormentata pensando di farti una cosa gradita.”
L’altro, Benedetto, è la reazione opposta a quella della zia Gilda. È la perfetta apparenza. È il dualismo sociale nascosto. È la mortificazione della carne gettata in pasto al piacere effimero, violento e fine a se stesso, ma dall’irreprensibile condotta esteriore.
Due Ponzio Pilato, dunque. Ipocriti. Ricchi di falsi equilibri sociali. Di inutili compressioni delle proprie libertà. Inutili. Ecco: Le inutili vergogne appunto!
Ma un giorno scatta il corto circuito in questo miscuglio di carnalità e fede, e quelle “… idee che ci abitano come ospiti nascoste; sbucano all’improvviso quando qualcosa le richiama irresistibilmente e devono svelarsi a noi, rivelare la loro forma. Sono come dei corpi”. Ecco allora lo sgorgare d’idee. Idee pure e folli. Figlie della follia. Ed è proprio la follia positiva a guidare il teatrale riscatto di Benedetto con l’aiuto del suo padre spirituale. Nunziatina. Un trans. Un esuberante transessuale felice di esserlo. Libero di esserlo. Responsabile di esserlo. Un transessuale che lo salva dalla sua apparente e irreprensibile vita sociale, togliendogli la perfetta maschera giornaliera, facendogli rielaborare il passato e guidandolo in questa teatrale follia. Un padre spirituale anomalo, fallito, disprezzato, ma libero perché puro di cuore e senza le braghe del perbenismo. Una liberazione data dal travestirsi come una liberazione del corpo, di quel corpo tempio dello spirito e limite dello stesso corpo. E da questa salvezza si approda alla spiritualità. A una vera libera spiritualità religiosa che non è la farneticazione di una contorta e personale mistificazione di Dio e di una morale cattolica assurda che non rispetta neanche Dio stesso.
I miei complimenti a Eduardo Savarese per questo bellissimo libro di cui ho scritto poco e male, e complimenti anche alla editrice e/o che ha avuto il coraggio di pubblicarlo.
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