Un sacco che contiene ossa umane. È questo che l’ispettore Samuel Owusu ritrova lungo le sponde del Tamigi. Quando avviene il ritrovamento, non sa ancora a cosa andrà incontro, ma fin dall’inizio l’ispettore Sam immagina che dietro quelle ossa ci saranno parecchi segreti da svelare. Comincia così “La famiglia è ancora qui” di Lisa Jewell, romanzo di recente uscito da Neri Pozza, tradotto dall’inglese da Annamaria Biavasco e Valentina Guani.
In realtà, si tratta del seguito di un precedente romanzo della Jewell: “La famiglia del piano di sopra”. Ritroveremo quindi tutti i personaggi di quella vicenda, compresa la villa decadente (anzi, decaduta) di Chelsea. A partire da Henry e Lucy Lamb e dalla figlia di Lucy, Libby, che lì abitavano, nella villa degli orrori nella quale avvenivano strani riti e che sembra essere stata la sede di un suicidio collettivo. Ma non preoccupatevi cari lettori se non avete letto la puntata precedente, perché questa storia sta benissimo in piedi anche da sola.
La Jewell ambienta questo romanzo nella sua Londra (proprio la North London dove lei è nata e cresciuta), nella quale abbondano gli scenari che lei predilige, capaci di coniugare la più coinvolgente modernità alla classicità delle case vittoriane, ricche di stile e di fascino. E dotate di un’eleganza che conferisce a Londra un’atmosfera che nessuna altra città al mondo riesce ad avere (sono di parte, lo ammetto, anche se a me non dispiace neanche la working London alla Bryndza, per capirci). Fascino, eleganza, aristocrazia e mistero che sono gli ingredienti di base di questo bellissimo romanzo.
“La famiglia è ancora qui” è una storia narrata a più voci. Dove la prospettiva e i periodi temporali cambiano continuamente, perché di volta in volta abbiamo un io narrante che assume diverse sembianze, con qualche cucitura finale nella quale è l’autrice stessa a tirare le fila di una vicenda che si è fatta parecchio intricata. Ma tutto questo non toglie ritmo al racconto, anzi, contribuisce ad accrescerne la suspense, fino al crescendo finale che risolve (se così si può dire) la questione.
Come ci faceva intuire il sacco immerso nel fango ritrovato all’inizio della storia, questo è il racconto di un abisso svelato. Di zone e luoghi oscuri, di vite cancellate, abusate, distrutte. Di esistenze perse ad inseguire sé stessi, nel vano tentativo di dare uno scopo e una ragione a ciò che non riesce ad averlo. Una rappresentazione nella quale è in particolare l’universo femminile ad essere protagonista e dove in generale le questioni di genere contano. Devono essere affrontate. E su tutto, ovviamente, la famiglia. Quella desiderata, quella celebrata, quella che si rappresenta all’esterno, ma che spesso nasconde al proprio interno molti lati oscuri. E, ancora di più, dentro la famiglia, questo è anche un romanzo sull’infanzia negata, rubata. La storia di figli che anziché essere educati da genitori finiscono per essere loro a educarli.
Effettivamente, molti aspetti di questa vicenda potrebbero far pensare a una tragedia. Ma non è proprio così. Perché se lo cerchiamo bene, dentro una storia di fango, veleni e orrori, c’è anche un piccolo lumicino della speranza. Lo scoviamo negli affetti ritrovati, nelle riconciliazioni inaspettate, nei gesti coraggiosi e generosi di chi si sacrifica per gli altri. Di chi scopre che la vita non ha senso se non insieme agli altri, quelli con cui si sta bene, quelli che vale la pena chiamare “famiglia”. Mi sovviene una frase celebre che diceva qualche anno fa un grande uomo: “Sortirne insieme è la politica, sortirne da soli è l’avarizia“. Mi viene in mente perché credo che, forse, in fondo, proprio questo è il messaggio che ci vuole lasciare la Jewell. Per quanti abissi noi si possa sperimentare, alla fine, con l’aiuto degli altri, possiamo sempre rinascere.
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