La grande rapina al treno (di cui al Thriller Café s’è già trattato l’incipit) è un romanzo del 1975 scritto da Michael Crichton; il secondo pubblicato dall’autore di Jurassic Park col proprio nome di battesimo invece che lo pseudonimo John Lange, e uno dei suoi più famosi.
Ambientato a Londra tra il 1852 e il 1857, segue le vicende romanzate (ma realmente avvenute) che precedettero uno dei più clamorosi furti dell’Inghilterra Vittoriana e alcune di quelle che lo seguirono. Protagonista dell’intreccio è Edward Pierce, “armatore” (oggi detto “basista”, e cioè colui che escogita e finanzia furti a privati o enti pubblici) dalla barbetta rossiccia e curatissima, uomo altolocato e dal passato nebuloso; assieme a lui il “ferramenta” (esperto di serrature e chiavi) Robert Agar, la conturbante “signorina” Miriam e altri curiosi “esperti” nei vari rami del “settore” (su tutti: il “biscia” Clean Willy Williams, il “faccendiere” Burrow e il “paino” Teddy Burke) compongono un agglomerato criminale eterogeneo eppure efficientissimo.
La grande rapina al treno vive perciò di personaggi estremamente “diversi”: per cultura, interessi, condizione ed estrazione sociale; eppure essi collaborano, s’armonizzano e complementano attorno all’Unico obiettivo: le 12000 sterline che una volta al mese lasciavano Londra a bordo d’un treno della South Eastern Railway dirette in Francia e poi in Crimea, dove servivano per finanziare la guerra alla Russia.
Rubarle: un obiettivo che sembrava impossibile. In un epoca infatti in cui nessuno aveva ancora inventato la fiamma ossidrica, lo spesso strato d’acciaio delle leggendarie casseforti Huddleston & Bradford era considerato (a ragione) insuperabile. Per aprirle, e prendere il denaro, dunque, servivano le chiavi. Quattro. Non c’era altra via.
Ma chi le teneva? E dove?
Un segreto, questo, di cui nessuno, salvo i pochi eletti della banca, conosceva qualcosa. Neppure Edward Pierce, il quale però aveva tutta l’intenzione di scoprirlo.
Da questa necessità parte un intreccio significativo eppure “leggero”, che si dipana tra situazioni paradossali, stratagemmi geniali e improbabili. L’Autore usa un linguaggio fluido e interessante perché arricchito col gergo criminale dell’epoca; ne viene fuori un romanzo per certi versi semplice che però è capace di prendere il lettore fin dalle prime pagine per la sua prosa liquida e generalmente veloce, nonostante alcune digressioni che pure non disturbano l’esperienza, ma anzi, anche qui, l’arricchiscono.
Concludendo, si potrebbe pensare che La grande rapina al treno sia il riuscito e (per molti versi) divertente resoconto “romanzato” d’un furto eclatante e indimenticato.
Ma c’è dell’altro. Un intero mondo, in realtà: l’Inghilterra Vittoriana. Uno Spazio e un Tempo ormai passati ma di cui in quest’opera l’Autore ha fatto rivivere con (spesso abbondante) ironia e dovizia di particolari contraddizioni, vizi, virtù e superstizioni.
Tra combattimenti coi cani, o i galli, misoginia, disuguaglianze, finzioni e tanta apparenza, La grande rapina al treno è perciò uno spaccato “popolare”, ai più sconosciuto, dell’Impero che in quell’epoca dominava in lungo e in largo almeno tre continenti; soprattutto, è la fotografia di una Città, Londra, prima, vera, grande metropoli moderna, ricchissima e insieme poverissima, che di quella Potenza era centro e cuore pulsante.
Recensione di Alessio Massaccesi.
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