Andare alle radici storiche della jihad in Europa è la faraonica impresa che si è prefisso lo scrittore e giornalista Frédéric Paulin con la trilogia del tenente Tedj Benlazar, che appare nella scena del noir proprio in “La guerra è un inganno” (E/O), e che nel 2020 vinse il Grand Prix de Litérature policière. Un noir duro, a tratti più reportage che romanzo, ma necessario. E tutti i libri necessari, si sa, sono alquanto scomodi.
Suo padre gli ha trasmesso solamente una cosa: la sua lingua. Ѐ per questo che parla arabo correntemente, è per questo che viene considerato un elemento particolare nell’ambito del suo servizio. Un’ultima boccata dalla Gitane, poi si mette al volante della Renault 21 grigia.
Lui sa ascoltare e dimenticare, conditio sine qua non per non lasciarci la pelle.
La paura di morire costringe le persone a starsene tappate in casa, la paura di soffrire, invece, scioglie le lingue.
Algeria, 1992-1995. Il tenente Tedj Benlazar dei servizi segreti francesi è la spia perfetta da infiltrare in Algeria. Parla perfettamente l’arabo, sembra un Algerino e ragiona come un Francese. L’uomo giusto al posto giusto per cercare di decifrare i movimenti politici in quel tormentato paese, in mano ad un regime militare ormai da decenni che alimenta nel suo ventre molle alcune cellule del movimento integralista islamico.
Il fiuto di Benlazar, però, carpisce segnali contrastanti dal comandante del DRS, Dipartimento informazioni e sicurezza algerino, il colonnello Bourbia, tanto da sospettare, da un lato, che il carcere di Aïn M’guel nel deserto sahariano sia in realtà un campo di sterminio per oppositori del governo, autorizzato dalla Francia; dall’altro, che gli “alti papaveri” francesi vogliano piazzare infiltrati all’interno delle bande di guerriglieri, in modo che i loro crimini gettino fango sui movimenti islamisti.
Con il miope risultato finale di creare un internazionalismo del conflitto algerino.
Poliziotti, storici, giornalisti e tutti coloro che scrivono la storia ufficiale ricorderanno che l’11 luglio 1995 la follia algerina ha attraversato “il mare bianco di mezzo”.
Quando, anni dopo, verrà ucciso a Parigi l’Imam Sahraoui, conosciuto come una delle voci moderate e illuminate dell’Islam, il caso viene affidato alla commissaria Laureline Fell e il suo vice, l’ispettore capo Philippe Canivez della DST, Divisione per la sorveglianza del mondo musulmano e l’antiterrorismo.
L’esperienza di Benlazar sarà indispensabile per dare una direzione decisiva al caso, nonostante le resistenze concettuali della commissaria.
“Supponiamo che dietro a tutto questo ci siano i servizi segreti. Quale sarebbe il loro obiettivo? Hanno appena ucciso un dignitario islamico che sostiene la pace. Non sarebbe controproducente?”
“Si, ma anche no. Loro cercano il caos, l’impossibilità del dialogo…”
“Che cazzo, tenente…” Fell si lascia sfuggire un sospiro.
Nel tentativo di arginare la deriva disastrosa della politica dei suoi superiori, Benlazar rischierà di perdere anche tutti gli affetti (penso alla compagna, all’amica e alla figlia Vanessa) ma non perderà l’integrità, nonostante il suo apporto non sia affatto risolutivo.
“Ma” – come ha dichiarato Paulin stesso in una recente intervista – “tutto ciò non ha impedito che queste tragedie avvenissero. Allo stesso modo, anche Tedj Benlazar non può impedire che accada il peggio, però ha cercato in tutti i modi di mettere in guardia i suoi superiori. È questo a renderlo un eroe da romanzo noir.”
Cari Avventori del Thriller Café, è innegabile che questo sia un romanzo complesso, da maneggiare con cura e da leggere riga per riga con la legenda delle sigle in bella evidenza (e non ho gradito che fossero messe solo a fine romanzo, perché non avevo in mano una copia cartacea…). Inoltre, al mio personalissimo cartellino, come diceva Rino Tommasi nelle telecronache di boxe, è sotto di almeno due punti rispetto a Pilgrim di Terry Hayes, del quale non potrò mai dimenticare la figura del Saraceno.
Non che Benlazar non sia un personaggio a tutto tondo, ci mancherebbe, ma è lo stile del romanzo troppo giornalistico che trascina con sé la figura del protagonista.
Come direbbero quelli bravi, “show, don’t tell” è la regola aurea per non rendere didascalica una storia, specialmente una spy story come questa, piena di elementi forti e colpi di scena.
Il contesto storico, invece, è impeccabile e coinvolgente per una Boomer come me che quella storia l’ha vissuta e se la ricorda bene fin dal 1992.
Ma quando ho letto l’esergo d’apertura sono saltata sulla sedia:
“Al Harb khidaa, lo sai cosa vuol dire? Vuol dire la guerra è un inganno”. Mohamed Merah a un agente della DCRI durante l’assedio del suo appartamento, il 21 marzo 2012.
Mohamed Merah, assedio, 2012… le mie sinapsi sono state più lente di internet, ma quando ho scaricato i risultati, boom! si sono illuminate come l’albero di Natale!
Il terrorista franco-algerino Mohamed Merah si autodefiniva mujaheddin, cioè patriota, combattente per la sua religione, e qaedista. Nascosto dietro il ruolo di un carrozziere gentile e ben educato, il giovane era in realtà un jihadista che per anni ha beffato l’intelligence francese. Tra l’11 e il 19 marzo 2012, a Tolosa e Montauban uccise prima un militare, poi altri due, e infine attaccò una scuola ebraica, per un bilancio totale di 7 morti, tra cui 3 militari e 3 bambini, e 6 feriti. Venne ucciso dalle teste di cuoio francesi del Raid, asserragliato nel suo appartamento, e gli attacchi vennero rivendicati da un gruppo affiliato ad Al Qaeda.
Il titolo del romanzo, dunque, rappresenta un pregevole esercizio di circolarità nella costruzione della trama: apre con Merah, per condurci indietro, alle radici di quell’attentato, fino a riportarci drammaticamente più vicini alla realtà del terrorismo islamico di stampo quaedista, che in Francia ha mietuto vittime fino al 2018 con la strage del mercatino di Natale di Strasburgo.
La Francia è in grado di salvare l’Algeria dal pericolo che la minaccia? La Francia è in grado, di fronte all’orrore che incombe, di non considerare l’Algeria solamente come parte della sua riserva di caccia africana?
A posteriori, potremmo concludere che l’interrogativo che si poneva Benlazar all’inizio della storia ha avuto una tragica risposta.
Frédéric Paulin
Frédéric Paulin è nato nel 1972. Dopo la laurea in Scienze politiche ha lavorato come giornalista freelance e insegnante. È il fondatore di Le Clébard (à sa mémère), testata di satira pubblicata a Rennes. Autore di una decina di romanzi, ha pubblicato nel 2018 la Trilogia Benlazar, vincitrice del Grand prix de Littérature policière nel 2020, in cui narra l’ascesa del terrorismo islamista fino agli attentati di Parigi del novembre 2015 e di cui La guerra è un inganno fa parte. La Nuit tombée sur nos âmes (2021) affronta in chiave romanzata gli eventi drammatici del Summit del G8 di Genova nel 2001. Il 2024 vede l’uscita del primo volume della sua nuova trilogia, dedicata alla guerra in Libano: Nul ennemi comme un frère. Nel 2019 La guerra è un inganno ha vinto il Grand prix du roman noir del festival del film poliziesco di Beaune, il premio Le livre à Metz e il premio dei lettori del festival Quais du Polar. Nelle sue mani la Storia recente è materia prima su cui lavorare, così da far emergere verità talora nascoste o falsificate dalla versione ufficiale.
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