C’è un nuovo libro di Michel Bussi in circolazione, cari avventori del Thriller Cafè. Si intitola “La mia bottiglia per l’oceano” ed è la traduzione di un romanzo del 2020, che Alberto Bracci Testasecca (che di Bussi è il traduttore “fisso”) ha tradotto come al solito per Edizioni E/O. Arriva in Italia dopo tre romanzi successivi già tradotti, ma sappiamo che la sequenza temporale non è fondamentale per l’autore francese.
Bussi, sempre scoppiettante, ci propone un classico giallo della camera chiusa ambientato nelle isole polinesiane. Per la precisione a Hiva Oa, nelle Isole Marchesi, dove nel cimitero di Atuona sono sepolti due mostri sacri della “francesità”: Paul Gauguin e Jacques Brel. Lo fa con il suo modo un po’ destrutturato e destrutturante di raccontare le cose. Sommando punti di vista diversi, invertendo i fili della narrazione, mescolando alla cronaca dei fatti molta ironia. Inventando un punto di partenza molto originale per la vicenda: cinque vincitrici di un concorso, alle quali viene concesso un soggiorno polinesiano nel corso del quale verrà tenuto un corso di scrittura creativa dal notissimo autore di gialli Pierre-Yves Francois. Il quale propone, in avvio del corso, di riflettere sul migliore inizio possibile per un giallo, che a suo avviso non è un morto, ma una sparizione. Così, quando poco dopo sarà proprio lui a sparire, tutti penseranno a un artificio letterario.
Al di là del fascino indiscutibile delle isole polinesiane, quello che interessa Bussi sono le persone messe a nudo. Spinte a rivelare la loro anima profonda, costrette da un ambiente chiuso e in un certo senso claustrofobico che le obbliga a relazionarsi intensamente per tutto il giorno. E il rapporto che si instaura tra la realtà e la finzione, tra gli avvenimenti e l’immaginario, fino a far confondere tutto in un gioco di specchi quasi indecifrabile. Un giallo della camera chiusa che ha perso un po’ della classica razionalità alla Agatha Christie e ha qualcosa della profonda analisi, quasi psicanalitica, degli scrittori scandinavi. Bussi ha le doti per costruire, a partire da queste idee di fondo, un romanzo avvincente, che ti conquista pagina dopo pagina, come ha più volte dimostrato nella sua carriera letteraria.
Le donne sono le protagoniste de “La mia bottiglia per l’oceano”. Il concorso letterario è riservato alle donne, le due voci narranti principali sono donne, l’animatrice polinesiana della pensione che ospita le scrittrici in erba è una donna, con due figlie. Gli uomini sono defilati, accessori, talvolta idolatrati (come nel caso dello scrittore Pierre-Yves Francois), ma quasi sempre incapaci di svolgere il loro ruolo, o perché privi di personalità, o perché scorretti. Sono le donne cui spetta il compito di sovvertire gli equilibri, modificare lo stato delle cose. Nonostante ogni tentativo di marginalizzazione. Così come le isole polinesiane finiscono per essere un’immensa periferia di un centro che è altrove, allo stesso modo alle donne viene spesso lasciato un ruolo secondario, mentre avrebbero le carte in regole per giocare un ruolo da protagoniste.
Su tutto aleggia l’interrogativo sul ruolo dello scrittore e più in generale dell’artista e dell’arte nella società, in particolare quando quest’ultimo arriva ad essere un artista di successo. In un mondo che sempre più ha bisogno di rifugiarsi nell’immaginario per riuscire a evadere la realtà, chi genera opere per permettere questa evasione, cela in sé un mistero profondo, quasi un dramma esistenziale. Come può reggere il peso derivante da questa “necessaria” funzione sociale, conservando la propria umanità? Come può sfuggire al proprio desiderio di “dominare” le persone normali, di utilizzarle ai propri fini? Un tema complesso e profondo a cui sembra che neanche lo stesso autore sia in grado di rispondere, se non amaramente, come sembra trasparire da uno scritto di una delle lettrici del concorso: “I libri sono più pericolosi di un’arma da fuoco, vanno maneggiati con più cautela di un veleno, gli scrittori sono spietati serial killer.”
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