La promessa (1958) è un romanzo di Friedrich Dürrenmatt (Konolfingen, 5 gennaio 1921 – Neuchâtel, 14 dicembre 1990), scrittore, drammaturgo e pittore svizzero. Originariamente Dürrenmatt lo aveva scritto come soggetto cinematografico per il film Il mostro di Mägendorf di Ladislao Vajda. Il tema era incentrato su delicato problema della violenza sui bambini. Successivamente, lo scrittore sviluppò il soggetto fino a farne un romanzo, mettendo da parte l’originaria intenzione pedagogica.
Da un caso particolare sono arrivato al caso del detective in genere, alla critica di uno dei più tipici personaggi ottocenteschi; e perciò, necessariamente, sono andato oltre l’obbiettivo che noi nel film dovevamo proporci.
(Cfr. Poscritto, in Friedrich Durrenmatt, La promessa – Un requiem per il romanzo giallo, Feltrinelli, 2014)
Dal romanzo, nel 2001, Sean Penn ha tratto un film interpretato dal grande Jack Nicholson.
Trama
Una bambina di sette anni viene barbaramente uccisa da parte di un sadico. Matthäi, commissario di provincia stimato per le sue capacità investigative, di fronte al dolore dei genitori della bimba, prometteche troverà il colpevole.
A questo punto la donna cominciò a parlare.
“Chi è l’assassino?” chiese con una voce così calma e staccata che Matthäi ne ebbe un brivido.
“Lo scoprirò, signora Moser.”
La donna allora lo fissò, minacciosa, supplichevole. “Lo promette?”
“Lo prometto, signora Moser,” disse il commissario, improvvisamente dominato solo dal desiderio di lasciare quel luogo.
“Sull’anima sua?”
Il commissario rimase sorpreso. “Sull’anima mia,” disse infine.
Che altro poteva fare?
“Adesso vada,” ordinò la donna. “Ha giurato sulla sua anima.”
Questa promessa, fatta ai genitori della bimba,si trasformerà in una vera e propria ossessione per Matthäi, e diventerà il suo unico scopo di vita. Dopo che un ambulante, il sospettato principale, si suicida in galera, il poliziotto si dimette per potersi dedicare completamente al caso. Matthäi però si rende conto di non avere niente in mano e, a quel punto, decide che l’unico modo per poter catturare l’assassino è attirarlo in trappola. Matthäi arriva così ad usare una bambina, simile a quelle già uccise, per catturare la sua preda. Sicuro che l’assassino prima o poi verrà, attenderà la sua comparsa come unica ragione di vita. Questa attesa logorante e la consapevolezza che ciò che sta facendo è amorale condurranno l’ex-commissario sull’orlo della follia…
Un capolavoro assoluto
Tra il 1952 e il 1958, Friedrich Dürrenmatt scrisse quattro romanzi gialli: Der Richter und sein Henker (Il giudice e il suo boia, 1952), Der Verdacht (Il sospetto, 1953), Die Fanne (La panne. Una storia ancora possibile, 1956), e Das Vesprechen (La promessa, 1958).
Il giudice e il suo boia è il primo romanzo poliziesco di Dürrenmatt. Già da questa prima opera, lo scrittore introduce il termine Zufail, il Caso, ponendo le basi di tutta la sua futura poetica di narratore, secondo cui è appunto il caos a governare tutto, compreso anche l’uomo. Da qui la convinzione che l’esistenza è imprevedibile e che non esiste alcuna certezza.
La promessa (1958, Einaudi 1975) ricostruisce il caso dell’uccisione di tre bambine col vestitino rosso e le treccine bionde (commento della moglie del colpevole: «È incredibile come le madri siano sbadate nel vestire i loro figli»). Il romanzo è una dissacrazione della favola di Cappuccetto Rosso e insieme una dissacrazione dei rapporti parentali familiari; ma l’autore lo considera soprattutto un «requiem per il romanzo giallo», perché sotto il cielo «incalzato dall’eternità» svaniscono tutte le certezze (anche quelle del rimorso, della condanna e dell’espiazione…
(Raffaele Crovi, Le maschere del mistero, Passigli editore, 2000, pp. 236-237)
Il romanzo, al di là delle intrinseche premesse filosofiche, è un ottimo giallo. Dürrenmatt racconta in modo serrato una storia cruda e vera, senza mai cadere nelle facili e scontate descrizioni efferate che l’argomento potrebbe consentire. Costruisce un poliziesco che, paradossalmente, pur criticando e auspicando la morte del giallo, è un vero e proprio orologio svizzero, un meccanismo perfetto, che incanta il lettore e lo invita a scoprire il colpo di scena finale.
Allo scrittore importa la psicologia del commissario e la sua degradazione morale: la sua trasformazione da poliziotto raziocinante e metodico a uomo sull’orlo della follia. Matthäi è incapace di accettare la dura realtà e rimane convinto della sua idea, anche quando l’evidenza e tutti intorno a lui asseriscono il contrario. Eppure Matthäi ha ragione ed è l’unico tra tutti ad essere arrivato vicino alla verità, anche se questo non è sufficiente in un universo governato dal caso. La stessa voce narrante, il dottor H. ex comandante della polizia cantonale di Zurigo, lo dichiara alla fine del suo racconto.
È una conclusione così ridicola, idiota e banale che a farla breve si dovrebbe ometterla nel caso si volesse stendere per iscritto questa storia. Con tutto ciò bisogna ammettere onestamente che questo finale depone interamente a favore di Matthäi, lo pone nella giusta luce, fa di lui un genio, un uomo che ha intuito così a fondo gli elementi a noi celati della realtà, che è riuscito a sfondare il muro di ipotesi e di supposizioni che ci circonda, e si è spinto in prossimità delle leggi che regolano il ritmo del mondo, e a cui noi altri non arriviamo mai. Solo in prossimità, è chiaro. Perché proprio per l’esistenza di questo sciatto e miserevole finale, perché esiste l’imprevedibile, il casuale, se preferisce, la sua genialità, i piani che architettò e tutto il suo modo di agire ne sono spinti all’assurdo, un assurdo che risulta ora assai più doloroso di prima, quand’egli secondo noi della Kasernenstrasse si sbagliava.
Niente è più crudele di un genio che inciampa in qualcosa di idiota.
Nei suoi romanzi polizieschi, Friedrich Dürrenmatt sviluppa una serie di tesi che sono alla base di tutta la sua opera:
- la morte del giallo classico e delle sue regole;
- l’esistenza è governata dal caos, contro cui nulla può la ragione;
- la critica della giustizia.
La morte del giallo classico
Friedrich Dürrenmatt, fin dal primo romanzo poliziesco, Il giudice e il suo boia, dimostra di volersi allontanare dalle vecchie e ripetitive regole del giallo classico.
… Friedrich Dürrenmatt è stato il primo ad annunciare ufficialmente la morte del giallo e a sostituirlo con il più dinamico noir. È stato uno dei più pungenti critici della letteratura poliziesca, dimostrando in romanzi quali II giudice e il suo boia (1950), Il sospetto (1951) e La promessa (1957) come la visione classica dell’investigatore, la detection precisa, la soluzione consolatoria di certi gialli si allontanassero troppo dalla realtà…
(Luca Crovi, Friedrich Dürrenmatt Le menzogne del noir, in Noir. Istruzioni per l’uso, Garzanti, 2013, p. 50)
Nel giallo classico, l’autore del delitto, simbolo del disordine sociale e quindi del male e del caos, alla fine, viene sconfitto dalla logica del detective, simbolo del bene. La promessa, nei propositi di Dürrenmatt, voleva essere il requiem di questo genere poliziesco: la logica razionale del detective nulla può contro la fatalità, guidata dal caos.In La promessa. Requiem per un romanzo giallo (1958), Dürrenmatt dichiara apertamente questa tesi e la conseguente morte del giallo-enigma, e lo fa, affidando questo arduo compito proprio a un anziano funzionario di polizia. Questi, dall’alto della sua esperienza diretta di poliziotto, denuncia appunto quanto sia assurda la cieca fiducia nella razionalità.
… la gente spera che almeno la polizia sappia mettere ordine nel mondo, benché io non possa immaginare nessuna speranza più pidocchiosa di questa. Ma purtroppo in tutte queste storie poliziesche ci si infila sempre anche un’altra ciurmeria. Non mi riferisco solo alla circostanza che tutti i voi stri criminali trovano la punizione che si meritano Perché questa bella favola è senza dubbio moralmente necessaria. Appartiene alle menzogne ormai consacrate, come pure il pio detto che il delitto non paga — mentre basta semplicemente considerare la società umana per capire dove stia la verità a questo proposito… quel che mi irrita di più nei vostri romanzi è l’intreccio. Qui l’inganno diventa troppo grosso e spudorato. Voi costruite le vostre trame con logica; tutto accade come in una partita a scacchi, qui il delinquente, là la vittima, qui il complice, e laggiù il profittatore; basta che il detective conosca le regole e giochi la partita, ed ecco acciuffato il criminale, aiutata la vittoria della giustizia. Questa finzione mi manda in bestia. Con la logica ci si accosta soltanto parzialmente alla verità.
L’idea alla base della trama de La promessa è che, in un mondo governato dal caos, è assurdo poter pensare di arrivare alla verità e alla giustizia, attraverso il mero uso del raziocinio o la logica dell’indagine di polizia.
Chi ama il genere giallo avrà già dissentito dall’affermazione iniziale, secondo cui la pubblicazione di romanzi come La promessa, abbiano rappresentato un requiem per il giallo classico. In effetti Agatha Christie, Rex Stout, John Dickson Carr ed Ellery Queen continuarono a scrivere e pubblicare con successo fino alla metà degli anni settanta. E basta entrare in una qualsiasi libreria per trovare, ancora oggi, interi reparti dedicati ai gialli classici, mentre i «Gialli Mondadori» continuano a ripubblicare con successo gialli della prima metà degli anni cinquanta del novecento.
La promessa e il nuovo poliziesco metafisico o giallo problematico
Dürrenmatt parte dalla struttura tipica del giallo classico, basato sulla scoperta del cadavere e la conseguente investigazione, con interrogatori e pedinamenti, ma segue poi una direzione completamente diversa. Lo scrittore, infatti, dimostra come le indagini falliscono di fronte al caos di cui è preda l’intero universo. Modificando le leggi su cui si basa il giallo classico, lo scrittore svizzero ne modifica anche la struttura, soprattutto il finale: non ci sarà più un vera e propria conclusione con l’arresto o la morte del colpevole. Niente più lieto fine per i lettori.
Dürrenmatt teorizza la morte del poliziesco, ma, come è sempre in casi simili, in realtà teorizza la morte di un certo poliziesco e l’avvento di un altro, di cui intanto dà splendidi saggi… (pag. 58) Questa svolta è avvenuta perché a un certo momento, per un cumulo di ragioni storiche e culturali, il giallista non se l’è sentita più di chiudere una sua storia – come si era fatto per un secolo o più – con una conclusione, non ha saputo più (non intellettualmente, ma psicologicamente, esistenzialmente) pensare che un caso criminale debba avere per forza una soluzione… Una fase nuovadunque, che mette in discussione tutte le tesi sul “giallo” e lo problematizza in modo nuovo. (pag. 82)
(Giuseppe Petronio, Sulle tracce del giallo, Gamberetti Editrice, Roma 2000)
Così come la realtà è dura e imprevedibile, così i polizieschi di Dürrenmatt non terminano con la vittoria del bene sul male e con la ricostituzione dell’ordine perduto. Il lettore rimane sconcertato e angosciato dalla dura realtà rappresentata.
I romanzi di Dürrenmatt, insieme a quelli di Borges, Gadda e Sciascia, dimostrano come tra la fine degli anni quaranta e gli inizi degli anni cinquanta, un’energia nuova e dirompente stava spazzando le antiche e ferree regole, incidendo e innovando sia la struttura che la poetica del poliziesco. Questi autori si erano resi conto che il vasto pubblico dei lettori era costituito soprattutto da amanti dei generi popolari. Un pubblico che non amava affatto lo sperimentalismo letterario o le grandi opere filosofiche. Per questo essi dovettero adeguarsi e calare le loro idee all’interno di strutture narrative consolidate, come quella del poliziesco, ma senza rinunciare a eroderne le fondamenta dall’interno. Conseguenza inevitabile fu che dal giallo classico nacque un nuovo filone, che sarà definito “problematico” (Cfr. Giuseppe Petronio, Sulle tracce del giallo, Gamberetti Editrice, Roma 2000, pp. 114-115). Proprio il fatto di aver criticato il giallo classico, basato sulla logica, e aver dimostrato come il mondo non possa essere controllato, e che lo scrittore non può paragonarsi a una specie di Dio che domina gli eventi, ha creato le basi per un nuovo tipo di poliziesco.
Il giallo metafisico… si afferma a partire dall’Argentina degli anni Quaranta come rielaborazione parodica e sovversiva – in chiave esistenziale, colta e divertita – del giallo classico… a inventare il termine metaphysical detective story è stato Howard Haycraft, nel 1941, discutendo i racconti che Chesterton ha dedicato a padre Brown…
(Cfr. Maurizio Ascari, Introduzione: l’infinito è un gioco di specchi, in Giovanni Darconza, Il detective, il lettore e lo scrittore. L’evoluzione del giallo metafisico in Poe, Borges, Auster, Aras Edizioni, 2013, pp. 18-20)
Uno dei primi esempi di questo tipo di giallo è “La morte e la bussola” (1943) di Jorge Luis Borges. Il detective, Lönrot, mentre sta indagando su tre morti misteriose, scopre grazie alla sue doti logiche, che la serie di delitti non è finita, manca ancora un quarto assassinio. Egli individua anche il luogo dove avverrà l’ultimo delitto, ma non sa che l’assassino ha compiuto i primi tre delitti in quel dato modo affinché egli, proprio grazie alle sue doti di investigatore razionale, arrivasse a quelle conclusioni. Si tratta infatti di una trappola e la vittima è lui stesso. Le capacità deduttive di Lönrot sono paradossalmente la causa della sua morte: “la detection diventa uno strumento dell’assassino: non è la difesa contro il mistero, ma una componente di esso; la forza razionale non svela l’assassino, ma suggella il suo piano criminoso. Una simile carica dissolvente, benché tanto più vistosa quanto meno incisiva, hanno i racconti polizieschi dello svizzero Friedrich Dürrenmatt” (Cfr. Alberto Del Monte, Breve storia del poliziesco, Laterza, Bari 1962, p. 261).
Il commissario Matthài, infatti, affronta il caso di un assassino di bambini con l’esercizio della più stringente logica, secondo la formula inaugurata un secolo fa da C. Auguste Dupin. Egli perciò conclude, come il Poe al termine dell’inchiesta sul delitto di Marie Rogèt, che l’assassino dovrà inevitabilmente prendere una certa via e lì, a un crocicchio, lo si potrà arrestare. Ma l’ineccepibile capolavoro logico dell’investigatore non tiene conto del caso…
(Ernesto G. Laura, Storia del giallo da Poe a Borges, Nuova Universale Studium, Roma, 1981, pp. 340-341)
Sia Friedrich Dürrenmatt che Jorge Luis Borges denunciano quindi quanto impotente sia la logica della detection classica e come le trame dei gialli classici siano del tutto inverosimili.
In Borges, questa visione dell’esistenza dominata dal caso è rappresentata da uno dei temi preferiti dall’autore, ossia il labirinto: “il reale si presenta con molte vie spianate alla brama di conoscenza umana, ma queste vie si rivelano perlopiù fallaci o menzognere, e riportano al punto di partenza o ad un punto di arrivo diverso dal previsto…” (Ernesto G. Laura, Storia del giallo da Poe a Borges, Nuova Universale Studium, Roma, 1981, pag. 346).
Dürrenmatt utilizza la struttura e i meccanismi del poliziesco, per dimostrare l’inconsistenza e la finitudine del genere stesso e, al tempo stesso, la sua tesi filosofica sull’esistenza. Lo fa, introducendo nei suoi romanzi, il concetto di Zufail, ossia il Caso: il mondo è regolato dal caso e non ci sono regole logiche che possano aiutare o guidare l’uomo o il detective.
Comunque, lo ammetto che proprio noi della polizia siamo tenuti a procedere appunto logicamente, scientificamente; d’accordo: ma i fattori di disturbo che si intrufolano nel gioco sono così frequenti che troppo spesso sono unicamente la fortuna professionale e il caso a decidere a nostro favore. O in nostro sfavore. Ma nei vostri romanzi il caso non ha alcuna parte, e se qualcosa ha l’aspetto del caso, ecco che subito dopo diventa destino e concatenazione; da sempre voi scrittori la verità la date in pasto alle regole drammatiche. Mandate al diavolo una buona volta queste regole… E ciò che è casuale, incalcolabile, incommensurabile ha una parte troppo grande… Ma voi scrittori di questo non vi preoccupate. Non cercate di penetrare in una realtà che torna ogni volta a sfuggirci di mano, ma costruite un universo da dominare. Questo universo può essere perfetto, possibile, ma è una menzogna. Mandate alla malora la perfezione se volete procedere verso le cose, verso la realtà…
Utilizzando il genere popolare per eccellenza, per dimostrare la sua tesi, Dürrenmatt costringe il poliziesco ad evolversi e a diventare qualcosa di profondamente diverso rispetto a ciò che era in origine. Dürrenmatt, Borges, Gadda e Sciascia sono alcuni dei grandi scrittori che, utilizzando il genere poliziesco così amato dal pubblico, sono riusciti ad affrontare tematiche sociali, politiche e filosofiche.
La tesi di Dürrenmatt, secondo cui il mondo è governato dal caos, conduce l’uomo al di fuori della sicurezza positivista, tipica del giallo classico, impregnando le pagine dei romanzi di pessimismo e amarezza nei confronti dell’esistenza stessa.
Il personaggio del commissario de La promessa, nella sua progressiva discesa negli inferi (utilizzo di un’altra bimba per catturare l’assassino) e nella pazzia (ossessione di catturare il colpevole che diviene l’unica ragione di vita), testimonia quanto l’esistenza sia priva di confini precisi: il poliziotto, simbolo della ragione e della giustizia, si è trasformato in un bugiardo sfruttatore sull’orlo della follia. Una motivazione giusta, ossia il giuramento fatto a dei genitori distrutti dal dolore, conduce il commissario dall’altra parte della barricata. I personaggi non hanno più ruoli ben definiti: il giustiziere, l’assassino, la vittima. Tutto si confonde. Niente è più ben chiaro.
Critica della società svizzera e della giustizia
Oltre a denunciare l’assurdità delle regole sui cui si basa il giallo classico, Dürrenmatt descrive in modo crudo l’amoralità sociale e politica del suo paese, e di conseguenza l’incapacità della giustizia di portare a termine i suoi compiti. Per questo nei suoi romanzi troviamo spesso il concetto di giustizia, una giustizia che raramente riesce a giungere alla verità. L’utilizzo del romanzo poliziesco è funzionale ed esprime al meglio la volontà dello scrittore: Dùrrenmatt, attraverso la descrizione della corruzione dei politici e della polizia, denuncia come proprio chi dovrebbe gestire e garantire l’ordine è in realtà la causa dell’amoralità e del disordine che regna nel mondo.
I polizieschi di Friedrich Dürrenmatt, il grande scrittore svizzero nato nel 1921 e morto nel 1990, più che inchieste sono istruttorie: tutte le opere di Dürrenmatt (drammi, radiodrammi, romanzi) inscenano rigorosi, implacabili processi al potere (potere politico, potere economico, potere scientifico) e alle sue degenerazioni e, più in generale, alla Storia (istituzioni e ideologie).
(Raffaele Crovi, Le maschere del mistero, Passigli editore, 2000, p. 236)
Friedrich Dürrenmatt, al tema della «giustizia» ha dedicato quasi interamente la sua produzione letteraria.
Nel 1968, lo scrittore tenne una conferenza sulla giustizia e sul diritto, presso l’Università di Magonza. Dürrenmatt sostenne che il mondo è in preda al caos e di conseguenza è ingiusto. Da questa conferenza scaturì anche il testo I dinosauri e la legge. Una drammaturgia della politica (Einaudi 1995). In quest’opera, basilare per comprendere il suo pensiero, Dürrenmatt dichiara che l’uomo “può costruire ciò di cui arriva a farsi un concetto esatto partendo da concetti esatti. Dai concetti esatti egli sviluppa sistemi e strutture esatte per gli ambiti del suo pensiero e del suo mondo, vale a dire i numeri, il secondo, il metro, il denaro, gli strumenti scientifici… solo lui stesso non si lascia trasformare in un concetto esatto”(Cfr. I dinosauri e la legge. Una drammaturgia della politica, p.20). Di conseguenza l’uomo è da considerarsi l’unico concetto “non esatto”. Bruno M. Bilotta, nel suo saggio sulle forme della giustizia, ha cercato di sintetizzare al meglio il pensiero di Dürrenmatt: lo scrittore considera l’uomo sia come individuo cui importa solo la sua libertà (concetto esistenziale), sia come appartenente alla società, e quindi rinunciatario della propria libertà personale (concetto logico).
Il rapporto della libertà con la giustizia, conclude sul punto l’autore, è problematico: «l’idea esistenziale di libertà si trova su un piano diverso rispetto all’idea logica di giustizia».La conclusione cui perviene l’autore rispondendo all’interrogativo su cosa sia un ordinamento sociale giusto è nel senso che «gli ordinamenti sociali, a causa delle emozioni su cui si basano, sono di per sé strutture fallite non solo per quanto riguarda la giustizia ma anche la libertà», e che, quindi, gli ordinamenti sociali sono ordinamenti ingiusti e non liberi. «Peggio ancora — afferma l’Autore — non esiste un ordinamento sociale giusto perché l’uomo, se cerca la giustizia, ha ragione a trovare ogni ordinamento sociale ingiusto, e se cerca la libertà, ha ragione a trovarlo privo di libertà». Un’idea personale, quindi, quella di giustizia e forse meglio, per dirla con Dürrenmattun’emozione.
(Bruno M. Bilotta, Forme di giustizia tra mutamento e conflitto sociale, Giuffrè, 2008, pp. 4-5)
Nel pensiero di Dürrenmatt, dunque, la giustizia si basa su fondamenta arbitrarie, anzi emozionali. Per questo la morale «metafisica» di Dürrenmatt si fonda sulla sfiducia nella giustizia. Il giudice e il suo boia, ad esempio, narra la storia del commissario Bärlachche deve risolvere un caso di omicidio. Bärlach sa chi è l’omicida, ma non avendo le prove per farlo condannare, costringe un altro a giustiziarlo.
“Non sono mai riuscito a punirti per i delitti che hai commesso, ora pagherai per un delitto che non hai commesso.”
Gastmann guardò incuriosito il commissario…
La macchina si fermò. Erano arrivati alla stazione.
“È l’ultima volta che ti parlo, Bärlach,” disse Gastmann. “La prossima volta ti ammazzo. Posto naturalmente che tu sopravviva all’operazione.”
“Ti sbagli,” disse Bärlach, fermo nella nebbia del mattino, vecchio e infreddolito. “Tu non mi ammazzerai. Io sono l’unico che ti conosca e quindi sono anche l’unico che ti possa giudicare. Ti ho già giudicato, Gastmann, ti ho condannato a morte. Tu non vivrai oltre questa sera. Il boia che ho scelto per te, verrà oggi a cercarti. E ti ucciderà perché, in nome di Dio, bisogna pure che qualcuno lo faccia.”
(Friedrich Dürrenmatt, Il giudice e il suo boia, Feltrinelli, 2003)
Il tema centrale del romanzo è quindi l’imperfezione della giustizia, e la sua conseguente incapacità ad accertare la verità e a punire i colpevoli. Il giudice e il suo boia è forse l’opera letteraria che meglio evidenzia il pensiero di Dürrenmatt sulla giustizia e la verità, concetti che sembrano non poter collidere.
Il tema della giustizia lo ritroviamo anche nell’altro capolavoro,La panne. Una storia ancora possibile. Questo romanzo narra la storia di un vecchio giudice in pensione che, insieme ad alcuni suoi amici, organizza un finto processo contro un rappresentante di commercio. Questi, costretto da un fortuito caso a fermarsi nel paese del giudice e ad essere ospitato nella sua casa, si trova coinvolto nel gioco dei vecchietti. Il processo è però così realistico che l’uomo inizia a confessarsi e a credere di essere veramente colpevole. Nel 1985 Dürrenmatt scrive addirittura un romanzo intitolandolo Giustizia, in cui un politico omicida chiede ad un avvocato “di riesaminare il proprio caso partendo dall’ipotesi che non sia lui l’assassino. Squattrinato com’è, Spät accetta l’assurdo incarico. E finisce in trappola, anche perché non si avvede di scambiare la giustizia come apparato burocratico con la giustizia come affermazione umana di ciò che è giusto… (Cfr. Nota di copertina, in Friedrich Dürrenmatt, Giustizia, Garzanti, 1986)
Come si evince dalle trame dei suoi romanzi, Dürrenmatt cerca di sorprendere i lettori attraverso la paradossalità della giustizia. Questo induce il lettore a farsi delle domande, a confrontarsi con i personaggi, a chiedersi che cosa è giusto o sbagliato.
Il tema del paradosso legato alla giustizia è presente anche ne La promessa. Si legga, a questo proposito, il passo in cui i poliziotti, frustrati dalla lunga e inutile attesa dell’assassino, si sfogano proprio contro la bambina.
“Annamaria” gridò Matthäi, “devi dirmi la verità. Io voglio soltanto che non ti succeda niente di male.”
“Bugia,” rispose piano la bambina. “Bugia.”
Allora il procuratore perse la pazienza un’altra volta. “Stupida,” gridò, e afferrò la bimba per il braccio, la scosse, “vuoi deciderti a dire quello che sai?” Gridavamo anche noi semplicemente perché avevamo perso il controllo dei nervi, scuotevamo la bambina, cominciammo a batterla, picchiammo quel corpicino caduto tra le scatole di conserva e la cenere e le foglie rosse, picchiammo di santa ragione, crudeli, infuriati, gridando.
La bambina lasciò che la nostra furia le passasse sopra, muta, per un’eternità, anche se tutto sicuramente durò solo pochi secondi, poi gridò improvvisamente, con una voce così sinistra e inumana che ci pietrificò. “Bugia, bugia, bugia!” La lasciammo andare atterriti, ricondotti alla ragione dalle sue urla, pieni di orrore e di vergogna per il nostro modo di agire.
È giusto pur di arrivare alla verità mettere in pericolo degli innocenti? È giusto, per combattere il male, usare i suoi stessi mezzi? Già ne Il sospetto (1953), Dürrenmatt aveva affrontato questo tema: il commissario, pur di arrivare a scoprire la vera identità d’un ex medico dei lager nazisti, mette in pericolo la vita di un giornalista che opera sotto mentite spoglie.
Leggendo queste poche pagine, ci si sarà accorti di come i temi elencati all’inizio dell’articolo (la morte del giallo classico; il caos; la giustizia) siano tutti collegati tra loro. Dürrenmatt li usa tutti per arrivare ad un’unica tesi, ossia dimostrare come l’universo sia in preda al disordine e di conseguenza come esso sia privo di giustizia.
Io mi fermo qui, perché non è questo il luogo per approfondire un argomento così complesso; ma a chi fosse interessato, consiglio l’erudito e approfondito articolo “Friedrich Dürrenmatt o l’impossibilità della giustizia” di Luigi Azzariti Fumaroli.
I brani del romanzo sono tratti da Friedrich Durrenmatt, La promessa – Un requiem per il romanzo giallo, Feltrinelli, 2014)
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