Per Todaro Editore, collana Impronte, è in libreria dal 3 maggio 2021 l’ultimo romanzo di Matteo Severgnini, intitolato “La regola del rischio” (secondo romanzo della serie dell’investigatore Marco Tobia, dopo “La donna della luna”). L’autore è anche documentarista, sceneggiatore, autore radiofonico, di racconti e di testi teatrali. Vive e lavora a Omegna, sul lago d’Orta, località non a caso protagonista dell’ambientazione spettrale di questo giallo, che ha inizio quando al confine italo-svizzero di Piaggio Valmara una donna frontaliera (Giulia) viene fermata per un controllo, mentre si sta recando al lavoro. Sotto il sedile della sua auto gli agenti rinvengono 50 grammi di cocaina, perciò viene inviata nel carcere femminile di Vercelli, in attesa di un processo per traffico internazionale di stupefacenti nel quale rischia fino a 20 anni di reclusione. Lei e suo marito Sebastiano non si capacitano. Avevano appena ritirato l’auto dal carrozziere, e la mattina dell’arresto Giulia aveva dato un passaggio a una donna, che indossava un abito elegante e degli occhiali scuri. I due vogliono trovare il vero colpevole e uscirne puliti. Si dicono contrari a patteggiare e decidono di fare appello a una loro amicizia. In particolare si rivolgono a una cara amica di lei: Clara. Fa la escort a Milano, ma è fidanzata con un investigatore privato, ex poliziotto, che di sicuro potrebbe aiutarli. L’uomo in questione si chiama Marco Tobia, è un tipo molto particolare, affetto dalla sindrome di Tourette, i cui attacchi gli hanno sempre causato spasmi motori incontrollabili ed emissione di grida o versi gutturali, ragione per la quale da ragazzino veniva spesso bullizzato. Si tratta di un autentico antieroe, personaggio (riuscitissimo) romantico e delicato, ombroso e fragile. Vive nella piccola isola di San Giulio, dentro il lago d’Orta, e in quei giorni è impegnato a tener fede a una promessa fatta alla piccola Alice, di otto anni: scovare nientemeno che la tana del drago che (come lui) si nasconde dentro il lago. Un gioco, certo, ma al tempo stesso un’indagine che Tobia prende sul serio, consapevole di avere un ruolo nella crescita della bambina, la quale non dovrà mai soffrire per le incapacità o le mancanze degli adulti (come era toccato a lui). “La regola del rischio” si muove infatti tra la dimensione della realtà (spesso cruda e amara) e quella della fantasia e del gioco (avvolta dal senso di dolcezza e di avventura tipico dei bambini). Aiutare Alice è anche terapeutico, poiché permette al tormentato protagonista di alleviare il proprio strazio e di riappropriarsi di una parte di infanzia che a lui è sempre stata negata (ci sembra ben possibile che questi sentieri del romanzo siano un omaggio a un concittadino illustre dell’autore, vale a dire a Gianni Rodari).
Torniamo però alla trama. Quando Clara (la fidanzata-escort) lo coinvolge nel caso della sua cara amica, Tobia si mette a disposizione, aiutato dal vecchio barcaiolo Anselmo e soprattutto dal suo amico ed ex collega Antonio Scuderi, ispettore di polizia finito sulla sedia rotelle proprio a causa sua. Scopriamo infatti che è stata proprio la malattia di cui soffre Tobia ad averlo portato a sparare accidentalmente alla schiena del suo amico. Un drammatico, terribile incidente, che ha paralizzato Scuderi e causato l’allontanamento dal corpo di polizia di Tobia, costretto ad accettare il pre-pensionamento e una licenza da investigatore, ma costretto soprattutto a vivere una vita di rimorsi. Anche se il suo amico lo ha perdonato e continua a essere al suo fianco, sembra che Tobia sia dilaniato dai sensi di colpa e abbia deciso di autopunirsi. Forse per questo vive isolato su uno scoglio in mezzo all’acqua, dove non c’è altro che una basilica e un monastero con delle suore di clausura. Forse per questo persiste nell’essere innamorato di una donna che per mestiere si concede ad altri uomini.
Se in ogni buon poliziesco l’ambientazione e i tratti dei personaggi sono importanti almeno quanto la trama stessa, questo testo non fa eccezione e anzi rafforza questo topos e lo sviluppa. Non è un caso che questi due elementi vengano qui compenetrati come in un processo osmotico. Da una parte il complesso (quasi eremitico) personaggio principale, dall’altra l’ambientazione nebbiosa e silenziosa del lago, divengono due entità che vivono l’una per dare spessore e protezione all’altra, in un progresso simbiotico. Quasi che il micro-mondo nebuloso dell’isola, salvaguardata dall’acqua, possa nascondere e alleviare i fardelli del Nostro ombroso detective privato.
Quanto allo stile narrativo Severgnini mostra una scrittura abbastanza diretta e chiara, capace di mostrare e di nascondere in modo sempre leale con il lettore, abile a carezzarci in modo garbato ma all’occorrenza incalzarci con intensità.
Sebbene da un punto di vista meramente formale siamo in presenza di un giallo-noir-poliziesco abbastanza tradizionale e classico (di quelli con qualche morto su cui indagare, che mescolano in modo sapiente atmosfera e mistero), il romanzo in questione va oltre il genere, poiché nella trama del giallo subentrano tematiche sociali, attuali e di massa: il razzismo, la discriminazione del diverso, l’incomprensione genitoriale, il tema dell’intolleranza e dei fardelli del passato, della solitudine derivante dalla malattia. Tutte materie scomode ma umane, presenti (o almeno striscianti) ovunque nel genere homo, perfino nei borghi al confine con il Canton Ticino, nella civilissima Svizzera. Dietro il meccanismo giallo inoltre si cela una lettura d’evasione, si esplorano sentimenti come il senso di colpa, si riflette su debolezze e situazioni critiche interiori, ci si scopre a interrogarsi sul proprio privato, a leccarsi ognuno le proprie ferite, a porsi interrogativi sui limiti o le reclusioni imposte più da stereotipi e convenzioni sociali o politiche che da vincoli oggettivi. Alla fine ci si ritrova a riflettere su come sopravvivere a tutto questo e sconfiggere il drago che vive in fondo al lago.
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