“Basta però con queste fini del mondo. Torniamo a una delle mie parole centrali, Einbildung, «immaginazione». Ora al posto di quest’altra parola vorrei metterne un’altra: Schein, «apparenza»”. Già in questo breve passaggio si intravvede la cifra stilistica e contenutistica de “La seconda spada” di Peter Handke, vincitore del premio Nobel per la letteratura 2019 e co-autore, in passato, della sceneggiatura del film capolavoro di Wim Wenders “Il cielo sopra Berlino”.
Dall’immaginazione, ci scrive l’autore quasi con nonchalance, vorrei passare all’apparenza. Non più quindi, ci chiediamo, volgendo lo sguardo oltre l’individuo e verso la società, “l’immaginazione al potere” che dalla filosofia di Marcuse tracima nelle manifestazioni dei giovani sessantottini, ma “l’apparenza al potere”?
Anche, forse. Ma il potere ha poco a che fare con questo romanzo. Si parla piuttosto di vendetta, di un riscatto a lungo atteso. Eppure la rabbia che sostiene questo violento proposito è carica di dubbi: spesso pare esitare, guardarsi allo specchio e giudicarsi, anche severamente, nel turbinio di un flusso di coscienza ininterrotto e avvolgente che ci avvicina ai pensieri e alle sensazioni del protagonista.
In questo romanzo, più che in altri, fin dal titolo, Handke sembra riscoprire il valore, per così dire, guerriero della scrittura. La “seconda spada” infatti, par di capire, è l’atto stesso di raccontare, di descrivere, minuziosamente, la realtà, per potere forse ambire, se non a comprenderla, almeno a trovare uno spazio comune.
Lo stile ricercato si spinge, per larghi tratti, a ricamare con arte la tessitura di un soliloquio nervoso, si potrebbe dire, tra chi racconta e chi si osserva raccontare. Come se il protagonista fosse, egli stesso, spettatore del proprio incessante pianificare e incerto agire.
I periodi si snodano, come folti arabeschi, e giungono ad abbracciare l’ovvio e l’inconsueto, l’atteso e l’impensabile: sempre alla ricerca di una nuova riflessione. Il protagonista (e forse anche l’autore) non si fa infatti soltanto spettatore, ma anche giudice impietoso. È come se l’istinto protagonista lo portasse in una direzione ma la razionalità, giudicante, quasi ossessiva, valutasse continuamente se si tratta della direzione giusta: ora accentuando, ora smussando le originali intenzioni.
Il tono e la tematica, la vendetta cercata ma forse anche temuta, verso chi ha insinuato che la madre del protagonista fosse una simpatizzante del terzo Reich, sono destinati a lasciare il segno, a stimolare l’intelletto e la coscienza del lettore, ponendolo di fronte a interrogativi freddi e amari, che non possono lasciare indifferenti.
D’altronde, da sempre, Peter Handke è stato al centro di un acceso dibattito: sia per la sua attività di scrittore, che per le proprie posizioni personali e politiche. In particolare molti, anche tra i suoi colleghi (ad esempio, Jennifer Egan, vincitrice del National Book Critics Circle Award nel 2010 e del Premio Pulitzer per la narrativa nel 2011) non hanno mai perdonato allo scrittore di aver espresso posizioni perlomeno dubbie, se non chiaramente filoserbe, durante la guerra del Kosovo di fine anni ’90.
A questo proposito, lo stesso Handke definisce “coraggiosa” la decisione del comitato che gli ha assegnato il premio Nobel, osservando: “Vi fu molto rumore quando scrivevo della guerra civile in Jugoslavia. Il mio era un punto di vista da scrittore”. E così ci ricorda come, da uomo sui generis e da narratore di razza, non si sia ancora stancato di far ascoltare la sua voce, comprese le note più criticabili e dissonanti.
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