Non so come lo definisca l’autrice, né come Paola Barbato autodefinisca il suo stile, soprattutto quello utilizzato per redigere il suo ultimo romanzo, che vado a recensire anche se il compito è particolarmente arduo. Non che non lo abbia letto, anzi. L’ho divorato di carta e appena è uscito l’audiolibro, me lo sono incollato ai timpani. Ma questo volume è inincasellabile.
La storia forse vi è nota: una donna già condannata per aver avvelenato la famiglia, concluso il percorso giudiziario viene rilasciata e sotto mentite spoglie, con diverse generalità, trasferita in città differente per iniziare un percorso di risocializzazione. Una assistente sociale va a trovarla spesso e si informa delle sue condizioni. Mara (un tempo Mariele) riceve una casa della Regione ed inizia a lavorare a traduzioni dal russo. Tutto dovrebbe riportarla ad una esistenza pressochè normale, ma la donna non ha alcuna intenzione di tornare nel mondo reale. All’interno dell’appartamento costruisce infatti la sua torre di avorio: sono pile di scatoloni, tutti bianchi, ove contenuta la sua vita di prima. Abbigliamento, fotografie, persino suppellettili e oggetti d’uso comune. Gli scatoloni arrivano sino al soffitto e man mano le occupano lo spazio in casa. Mara non è oppressa, si auto-limita, evita persino di prendere peso altrimenti non passerebbe dai pertugi che questa invasione di contenitori le lascia per aggirarsi per casa. Non esce mai. Ordina il cibo online. Al massimo esce di notte. Ha un solo vezzo: coltiva alcune piante, che tiene in bagno.
Ma questo bozzolo in cui si è autoreclusa ha un limite: non può assolutamente permettersi di bagnarsi, perché il cartone si ammollerebbe e la torre cadrebbe, travolgendola. Ecco perché, quando un giorno Mara vede una macchia di umidità sul soffitto, è costretta a salire al piano di sopra per domandare al vicino cosa la provochi. E così scopre che è lui, il vicino, a causare lo sversamento: il suo cadavere giace in vasca e l’acqua fuoriesce.
Mara si accorge immediatamente che quel morto la riguarda, anche se lei è perfettamente innocente. Quell’assassinato infatti emana l’odore del veleno che lei stessa produce(va) e somministrava ai suoi.
Scappa, e scappando va a cercare le sue amiche, quelle che si è fatta nella REMS, con cui vivrà una serie di avventure mirabolanti.
Una lettura incalzante, dal ritmo serratissimo, dove si alternano parti tipicamente thriller a impunture che a me hanno persino fatto ridere. Una via di mezzo (e molto oltre) tra Chicago il Musical e Quattro casalinghe di Tokyo, con un finale quasi da commedia anni 50.
Ora chiedete alla signora Barbato se si ritrovi in questa summa… e buona lettura. Occhio se nel the mettete le zollette di zucchero… non si sa mai che Mara-Mariele sia nei paraggi. Magari ha cominciato a volervi bene…
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