Puoi essere matto come un cavallo, può mancarti qualche lunedì e puoi avere le rotelle fuori posto, ma se sei anglofono è più probabile che tu sia matto come un cappellaio. L’espressione mad as a hatter, resa celebre da Lewis Carroll in Alice nel paese delle meraviglie, nacque presumibilmente nell’Ottocento perché coloro che esercitavano il mestiere di cappellaio utilizzavano il mercurio per le loro lavorazioni, inalandone i vapori con conseguenze nefaste per la loro integrità mentale. Se poi, per una coincidenza beffarda, hatter è anche il tuo cognome, e si dà il caso che tu sia un po’ squilibrato, potremmo proprio dire che nomen omen.
La famiglia protagonista di La tragedia di Y – secondo romanzo del ciclo di Drury Lane – gli Hatter, rientra a buon diritto in questa definizione. Nel sangue dei suoi componenti si annida una tara ereditaria i cui effetti si rispecchiano nelle bizzarrie, talvolta tragiche, che li affliggono. La matriarca Emily, tirannica capofamiglia, governa la sua progenie e il marito col pugno di ferro. La maledizione del suo patrimonio genetico produce dal primo matrimonio Louise, una ragazza cieca, sorda e di fatto anche muta. I figli nati dal secondo matrimonio sono ugualmente corrotti, sebbene la tara per loro si manifesti sul piano morale: Conrad è un debosciato alcolista, Jill è totalmente priva di senso etico e Barbara, la poetessa, all’apparenza più equilibrata, vive comunque in un mondo tutto suo. L’ambiente creato da simili personalità non può che essere tossico, se non addirittura invivibile per il secondo marito di Emily, York, che infatti viene rinvenuto in mare, morto suicida all’inizio della storia.
La trama, per l’appunto, evoca per svolgimento e atmosfere una vera e propria tragedia: le tragedia di York, che decide di togliersi la vita, nonché del resto della famiglia, colpita dal fallito tentativo di avvelenamento ai danni di Louise, e successivamente dall’omicidio della vecchia despota. A dipanare la matassa è ancora una volta Drury Lane, ex attore shakespeariano ritiratosi dalle scene, che vive in un vero e proprio castello alle porte di New York. A differenza del primo romanzo che lo vede protagonista, di cui pure ricalca la struttura suddivisa in atti e scene, il secondo capitolo della saga non propone un caleidoscopio di luoghi e situazioni presentati a ritmo serratissimo, ma è saldamente ancorato a un’unica ambientazione, la magione degli Hatter che, ben lontana dall’evocare un senso di protezione e conforto, funge piuttosto da prigione, ingabbiando i personaggi e quasi recludendoli, isolandoli dal mondo esterno.
Questo impianto narrativo rende lo svolgimento della vicenda più coeso e per molti versi più classico. L’atmosfera è tetra, terreno fertile per una catastrofe incombente, e ricorda dichiaratamente La fine dei Greene di S. S. Van Dine. I Queen tratteggiano questo ambiente decadente e angosciante con accurata efficacia, e questo compensa il fatto che la soluzione finale, al contrario di altri loro romanzi, risulta forse meno difficile da indovinare, seppur profondamente disturbante.
Il libro è stato oggetto, di volta in volta, di svariate letture. Alcuni lo hanno interpretato come una censura severa della decadente borghesia americana dell’epoca, se non addirittura della società statunitense nel suo complesso. Da parte nostra, riteniamo più probabile che i Queen non abbiano avuto l’intenzione di scrivere un libro di critica sociale, per lo meno non in maniera consapevole, anche perché il giallo investigativo classico dell’epoca d’oro (anni Trenta e Quaranta) tende a rimanere in qualche modo distaccato dai problemi del mondo reale, regalando al lettore storie godibilissime ma da fruire come momenti di pura evasione, senza necessariamente fare riferimento a questioni sociali. Più probabile che gli autori abbiano inteso cimentarsi in un romanzo che ricalcasse, per atmosfera e clima generale, la già citata Fine dei Greene di Van Dine, che negli anni Trenta era considerato uno degli autori più rappresentativi del genere, e a cui i Queen guardavano come a un modello. È anche probabile che desiderassero conferire alla seconda indagine di Drury Lane un carattere differente rispetto al romanzo precedente, visto che anche nei due libri successivi della serie verranno introdotte caratteristiche nuove, e addirittura una nuova figura di investigatrice, la figlia dell’ispettore Thumm.
Ad ogni modo ancora una volta, i cugini Dannay&Lee hanno estratto dal loro cappello un giallo dalla cui lettura non si può prescindere, se si vuole avere un quadro completo del panorama del romanzo investigativo americano nella prima metà del Novecento.
Recensione di Alessandra Ghilardi e Alessandro Rossi
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- Ellery Queen (Autore)