Venduto in ventinove Paesi e salutato in patria come il nuovo La ragazza del treno, recensiamo oggi La vedova di Fiona Barton, pubblicato da Einaudi nella collana Stile Libero Big.
Jane ha sposato giovanissima Glen Taylor, un uomo premuroso che ha voluto provvedere a lei in tutto; in apparenza un matrimonio perfetto, ma sin dalle prime pagine la protagonista racconta un’altra storia. Quando il marito muore investito da un autobus, lei prova sollievo.
Riceve la visita di Kate, l’ennesima giornalista che vuole raccogliere la sua testimonianza perché lei è stata protagonista principale assieme al marito di un popolarissimo caso giudiziario e mediatico: Glen è diventato famoso per qualcosa di turpe, di delittuoso, tanto da diventare il classico mostro da prima pagina.
Da subito, in effetti, si allude ad un segreto ed intuiamo che la vera identità del marito è oscura; Jane ha vissuto la loro relazione in uno stato confuso tra adorazione e soggiogamento. Barton è molto brava nel costruire le sottigliezze e l’ambiguità della psicologia della vedova: anche ora che sembra aver assunto un atteggiamento più lucido sulla sua storia, la repulsione nei confronti di Glen si mischia all’attrazione per il compagno defunto, il cui controllo totale su di lei la dispensava dal peso della responsabilità; una dinamica ricorrente nei rapporti di coppia perversi, che l’autrice riesce a trasmettere dal punto di vista della parte debole del legame, usando le parole di Jane che conserva un modo ingenuo di raccontare le cose, un leggero stupore, come se il fatto di essersi sposata a diciassette anni, chiudendosi in un mondo dove badava a tutto Glen, le abbia impedito di maturare. Anche con la giornalista, Jane si lascia trasportare, obbedendo alle sue intenzioni: viene così portata in un albergo, lontana dai paparazzi, per concedere un’esclusiva a Kate nella quale racconterà finalmente la sua verità.
Un flashback di quattro anni ci mette a conoscenza delle indagini dell’ispettore Sparkes sulla scomparsa di Bella, una bambina di due anni. Le ricerche, dopo diversi tentativi a vuoto, portano all’arresto di Glen, sospettato di aver ucciso la bimba. Come abbiamo detto, la vicenda stuzzica inevitabilmente l’interesse giornalistico: frotte di cronisti si accalcano davanti alla porta di casa Taylor. Parenti e amici scompaiono. “Nessuno voleva più saperne di noi. Volevano solo sapere i fatti nostri“. Jane è combattuta: anche quando le prove sembrano farsi più schiaccianti ed emergono segreti inconfessabili, cerca di credere al marito. Vuole credergli. Questa sua psicologia fragile finisce per inquietare il lettore, instillandogli dubbi persino sulla protagonista.
Barton costruisce una trama accattivante in ogni sua parte: la voce in prima persona di Jane, le descrizioni degli sforzi dell’ispettore Sparkes e della polizia di trovare Bella, i capitoli dedicati al punto di vista di Kate, la scena del processo. Glen è un fanfarone, la cui simpatia forzata si rivela patetica come il suo tentativo di simulare controllo giustificando tutte le incongruenze che gli inquirenti gli contestano con scuse bell’e pronte. Man mano che la storia procede Taylor si rivelerà uno dei migliori villain degli ultimi anni, cui Barton conferisce una rotondità ed una personalità complete, l’ennesimo punto a favore di questo libro.
Se del domestic thriller ha l’attenzione rivolta alla coppia e la centralità della figura femminile, nella sua parte centrale tutta dedicata al caso della bambina scomparsa il romanzo mette in secondo piano gli aspetti psicologici lasciando spazio ai meccanismi del giallo.
Il libro si assume il rischio di essere leggermente troppo lungo, ma lo fa per diventare un racconto ricco di suggestioni: ha ad esempio anche dei piccoli momenti estranei al delitto principale, come quelli dedicati al rapporto tra l’ispettore e sua moglie, che arricchiscono il romanzo di sfumature. La vedova è una grande opera prima, capace di imprimersi nella memoria del lettore non solo per la trama coinvolgente ma anche per le psicologie dei personaggi.
Una postilla finale che esula dalla valutazione del romanzo ed è più una mia battaglia personale: non so se è giustificato in qualche modo dal testo originale, ma più d’una volta la traduzione usa “gli” come pronome personale complemento per la terza persona plurale. Almeno nello scritto usiamo “loro”!
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