Può un romanzo essere un piccolo gioiello di eleganza, permeato di quel vaga altezzosità che solo un noir francese può avere, ed essere nel contempo spietatamente cinico e oscuro?
Se il romanzo in questione è L’abito da sposo di Pierre Lemaitre, riproposto in una nuova edizione a cura di Fazi Editore nella collana Darkside, la risposta è: assolutamente sì.
Sophié ha trent’anni, è la babysitter di Léo, il figlio di una coppia di ricchi parigini, è graziosa e vagamente insignificante. Sophié non ricorda le cose cose: tutto è cominciato con poco, il mazzo di chiavi, il telefono, le pillole, il taccuino che lo psichiatra le ha detto di compilare per ricordare, perso anche quello.
Quando una mattina Sophié si alza e trova Léo strangolato, non ricorda di averlo ucciso. Non ricorda niente, in realtà, ma è fermamente convinta di non essere stata lei, anche se è vero che negli ultimi tempi trovava Léo sempre più insopportabile, con quella sua bellezza e quel suo fare educato.
Il dubbio la tormenta, e sa che sicuramente la polizia non le crederà. Resta quindi solo una possibilità, fuggire da Parigi, ricostruirsi vite temporanee ai margini della società senza lasciare traccia. Lasciandosi dietro altre morti che non ricorda.
Non si può andare oltre nella trama, perché proprio quando il romanzo sembra aver preso una direzione precisa e l’intento dei Lemaitre parrebbe quello di raccontare una fuga, il romanzo vira bruscamente in tutt’altra direzione, cambia tono e introduce una nuova voce narrante che porta un diverso punto di vista e una domanda: “Chi è Frantz?”. Nella risposta c’è la chiave della storia, che incanala il finale in modo inatteso.
Pierre Lemaitre, Pierre “Il maestro”, nomen omen perché indubbiamente Lemaitre è un maestro di stile, e porta il romanzo noir su un altro livello: L’abito da sposo è un intenzionale omaggio ad Alfred Hitchcock, ci propone un viaggio in quattro capitoli allucinato e allucinatorio all’interno della follia, delle psicosi e delle paure, attraversando territori interiori decisamente oscuri e destabilizzanti, raccontati con una scrittura cinematografica che tanto sarebbe piaciuta al grande regista.
La prima parte del romanzo scorre in modo lineare, volutamente privo di scossoni, con picchi improvvisi che ci portano dritti dentro le angosce di Sophié e che, attraverso flashback, ricostruiscono la sua vita: non si riesce realmente a simpatizzare con Sophié, ha un qualcosa di tossico, eppure non riusciamo a staccarci da lei, come attratti nella spirale che è in copertina.
Nella seconda parte il tono cambia, diventa un diario – di una voce narrante che non è Sophié – fatto di date, ricordi di luoghi o d’infanzia, ed è anche il racconto della costruzione di una raffinata ossessione, tanto più angosciante quanto più lucida nel suo disegno: il romanzo poi si compie negli ultimi due capitoli che diventano un gioco di rimandi, inversioni di ruoli, spostamenti di punti di vista, perfetta chiusura di questo eccellente polar.
Una nota di merito va alla traduzione di Giacomo Cuva, che ha saputo trasmettere la giusta atmosfera di un romanzo che gioca spesso con le sfumature.
«C’è qualcosa di più importante della logica: l’immaginazione»: bisognerebbe tener sempre presente questa massima di Alfred Hitchcock nella lettura de L’abito da sposo. Inutile tentare di inseguire il filo logico della tradizione giallistica, alla ricerca della verità fattuale: dobbiamo lasciarci andare al flusso di una narrazione lucida, sottile, cattivissima, meccanismo perfetto con il sottofondo dei Joy Division o di The Lounge Lizard.
Pierre Lemaitre è a tutti gli effetti considerato uno dei migliori scrittori francesi; gli sono stati attribuiti numerosi riconoscimenti tra i quali spicca il Premio Gouncourt nel 2013. Fazi Editore ha in precedenza pubblicato l’ottimo Lavoro a mano armata, da quale è stata tratta una serie per Netflix con protagonista l’ex calciatore Eric Cantona.
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