Non c’è proprio niente da fare.
Chiunque scriva un romanzo sulla polvere bianca, fosse anche un libro autoprodotto e stampato in due copie poi rimaste nel cassetto del tavolo della cucina, dovrà confrontarsi con l’ombra del maestro del genere.
Sapete già chi è.
Non serve neanche nominarlo.
Quel Don Winslow, talmente grande da essere diventato leggenda ancor prima di lasciare un’eredità.
Innovativo e iconoclasta, Winslow è per manifesta superiorità il punto di fuga, la stella cometa di chiunque decida di scrivere un romanzo sulla Droga.
Ci ha provato Giovanna Repetto con il suo “L’alibi della vittima”, storia di polvere bianca, morti ed assassini ambientata nell’agro pontino.
Progetto ambizioso.
Ma non proprio riuscito.
E’ chiaro, Rocca Persa non è Orange County, e Memè non assomiglia neanche lontanamente ai vari Ben e Chon de “Le Belve”.
Ma i punti deboli di questo romanzo sono ben altri.
A partire dal ritmo narrativo (quello che dovrebbe essere lo “shining” della storia, la luccicanza che trasforma un buon romanzo in un capolavoro), claudicante e spesso grossolano.
Per poi giungere al capitolo “responsabilizzazione del lettore”, ossia il metro valutativo della buona storia che vuole che il 30-40% delle nozioni debbano basarsi sul non detto e l’allusivo, il tutto sul presupposto che la buona storia è quella che fa capire al lettore ciò che è stampato ma anche ciò che è scritto tra le righe.
Elemento che ne “L’alibi della vittima” manca sensibilmente.
Per giungere poi ad un eccessivo sovraffollamento di personaggi. Sovraffollamento che, invece di trascinare il lettore in un vortice diegetico, finisce per proiettarlo di fronte ad un teatrino di personaggi macchiati dal peccato originale di “sembrare persone” piuttosto che di “essere persone”.
Un capitolo a parte, invece, meritano i dialoghi.
Immediati e diretti, secchi, non lasciano spazio alla retorica ed alla pomposità. E questo è davvero un gran pregio.
Il problema è, sostanzialmente, che qui si soffre il difetto opposto. La dialogistica è talmente ridotta all’osso, senza interventi del narratore, da rendere il romanzo più simile ad un lungo copione teatrale che ad una vera e propria “novel”.
Tra i pregi dell’opera, però, va riconosciuto a Giovanna Repetto (qui un’intervista) il merito di aver seguito il primo (o forse secondo/terzo) comandamento della buona scrittura creativa, ovvero il sacro “scrivi di ciò che sai”: l’autrice, infatti, si è occupata di problematiche legate alle dipendenze patologiche per circa trent’anni.
“L’alibi della vittima” resta quindi un tentativo non riuscitissimo, una storia nata bene ma raccontata male.
Che, per onestà intellettuale, non si può che rinviare a settembre.
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