Bienvenidos senores y senoras a la mesa de Thriller Cafe, ahoy en la Madrid de el siglo dieci-ocho, donde hay mucho, mucho calor, pero hay aventura y amor y colores tambien.
Eccoci nella Madrid di Francisco Goya, pittore di Corte, talento riconosciuto, dalla fama imperitura e la produzione ellitticamente così diversa tra le commesse di prelati e governanti e le tele negre, per esempio, inquietanti e sordide.
In quella Madrid, Sara di Furia colloca un giovane apprendista, noto per le splendide madonne che disegna davanti alle chiese e per le misture perfette con cui realizza i colori. Goya lo ha occhieggiato per il talento e lo mette alla prova commissionando a suo padre un Rose Dorè, tinta avorio- crema di petali usato per raffigurare gote virginali, la cui resa pittorica dipende dal giusto quantitativo di urina di vacca con cui miscelata. Prova egregiamente superata, Manuel Alvèra va a bottega dal maestro ma, sin da subito, gli si impongono alcune regole ferree; non si sbirciano le opere incompiute, non si entra in atelier quando posa Betsabe, la musa modella.
Il ragazzo è pelo-rojo di capigliatura fulva e di fatto, per cui delle regole ben presto si dimentica. Ficca il naso anche fuori dalle mura di magion Goya, nonostante a Madrid imperversi il terrore, che ha come soprannome el diable e come fissazione far fuori tutti i pittori in circolazione. Scuoiandoli, peraltro.
El jefe Goya pare immune dal timore, visto che lui – ufficialmente- non pitta femmine ma solo sobri ritratti maschili e soggetti religiosi, a differenza dalle vittime che hanno effigiato puttane e ballerine di flamenco.
Manuel cresce, fa esperienze, diventa uomo (anche grazie alla zingara Soledad, di vaga reminiscenza Notre-damesca), viene accusato, viene inseguito, salvato in extremis. Respira di sollievo. Respira i miasmi della Madrid putrescente, sporca e abbacinata da un sole impietoso. Respira i vapori delle polveri con cui prepara i colori al suo maestro, che a sua volta se ne ciba quasi, usando ammorbidire il pennello con la saliva. Saturnismo, si chiama, questo avvelenamento da piombo allora piuttosto comune, oggi contraibile solo in pessimi ristoranti di sushi.
Nel romanzo di Sara c’è uno straordinario approfondimento dell’opera di Goya, che mi ha rivelato esserle così piaciuta, in occasione di una sua visita al Prado, da essere essa stessa la scaturigine del romanzo, soprattutto nella sua dicotomica ed evidente frattura tra un lezioso Parasol, una languida Maya desnuda e il gotico del Krono che mangia i suoi figli o ancora la satira del Pelele, il fantoccio che le ragazze fanno saltare per divertimento.
In questa storia ci sono colori accesi- non solo sulle tavolozze ma nelle ruas, tra la gente sporca, macilenta e faccendiera – odori acri e pestilenziali di carcasse animali ed escrementi che nessuno raccoglie, ma anche di candele sacre brandite come armi da un ceto religioso abituato a ottenere tutto e a qualunque costo.
Ci sono atmosfere molto godibili, a cavallo tra Bizet e il Nome della Rosa, tra le corride di Hemingway e tutto il filone narrativo sull’arte maledetta e i pittori posseduti dal daimon.
Ma c’è anche un sottinteso originalissimo, una spiegazione al perché Goya cambi registro pittorico in modo così drastico che è essa stessa un giallo, tra mistero e plausibili esiti.
Uno spaccato storico impietoso, con una scrittura fluida, rotonda, ben fiorita.
E per chi volesse proseguire e svelare un altro mistero, Sara di Furia ha scritto anche Jack.
Indovinate un po’ Jack chi.
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