Avevamo già recensito al Thriller Café altri due episodi della trilogia di Bramard e Arcadipane di Davide Longo. Oggi completiamo l’opera con “Le bestie giovani”, anche questo pubblicato nel 2021 da Einaudi. Si tratta probabilmente dell’episodio più complesso e forse anche più riuscito tra i tre, uscito per la prima volta nel 2018 da Feltrinelli con il titolo “Così giocano le bestie giovani”. Infatti, nel primo episodio (Il caso Bramard) era il passato a dominare la vicenda, con il profilo dell’ex commissario Corso Bramard che aveva chiuso la sua carriera in Polizia per vicende consumate negli anni precedenti. Nel più recente (Una rabbia semplice) invece è quello che ci aspetta nel futuro a interessare il commissario Vincenzo Arcadipane. In questo episodio ci troviamo di fronte a un caso del presente che getta le sue radici nel passato (un classico cold case) e che si distende lungo un arco temporale molto vasto, indagando sulle radici che ci hanno portato a essere quello che siamo.
Tutto nasce dal ritrovamento di una sorta di fossa comune alle porte di Torino. Ossa di dodici persone. Un caso velocemente derubricato a episodio della seconda guerra mondiale, ma che non convince il commissario Arcadipane. Ci sono alcuni particolari che non combaciano e che gli fanno frullare in testa un sacco di dubbi. Così decide di indagare in autonomia e scopre che questo caso è sì riferibile al passato, ma a un passato ben più recente dell’ultima guerra mondiale. Un passato fortemente legato a un episodio degli anni settanta. Per il quale Arcadipane ha bisogno di riportare in campo Corso Bramard e Isa Mancini, suoi ex colleghi occupati oggi in tutt’altre faccende. Saranno proprio loro a essere quasi più attratti di lui da questo caso e a scavare nel passato per riuscire a interpretare il presente.
Se qualcuno dubitava delle doti di Longo, con questo romanzo credo che possa sciogliere ogni dubbio. Abbiamo a che fare con un vero talento. Che ha trovato un suo stile, un suo linguaggio, una sua prosa e suoi dialoghi. Molto originali e azzeccati. Di cui si ritrovano con una certa facilità le influenze. Fruttero e Lucentini sopra ogni altra (torinesi come le vicende di Longo, che nei pressi di Torino è nato), ma anche, in una certa misura, Camilleri (ha ragione Baricco a richiamarlo nella sua introduzione). Insieme a questo una costruzione abile di un intreccio costruito nel rimando continuo tra passato e presente, che rende la lettura estremamente coinvolgente.
Oltre ai suoi personaggi, la protagonista di questo romanzo è però la Storia, quella con la esse maiuscola. Ma lo è in un modo per nulla pedante e nemmeno didascalico. Sono le vicende che interessano i personaggi che ci aiutano a capire alcune logiche del presente, partendo non da astratte costruzioni teoriche, ma dalle vite in carne e ossa dei suoi protagonisti, delle loro scelte e degli ambienti e dei luoghi che loro frequentano. Sullo sfondo Torino. La città di adesso e la città degli anni settanta, fotografata mettendo in rilievo le molte facce che da quel periodo hanno lasciato tracce anche nel tempo di oggi.
Sarebbe impossibile non scorgere la grande nostalgia che traspare dalla narrazione di Longo, una nostalgia espressa da parte di chi in quegli anni era bambino e non poteva sicuramente aver vissuto quegli episodi, salvo assorbirli nei racconti dei fratelli maggiori e nelle leggende tramandate. Una nostalgia che però non impedisce a Longo di fare i conti con gli errori e le crudeltà di quell’epoca. Allora difficili da vedere, ma oggi, a così tanti anni di distanza, chiari come il sole. Come ricorda il titolo originale di quest’opera, sono gli errori di chi voleva giocare (come giocano le bestie giovani) e invece produce graffi indelebili nella carne di tutti noi.
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Articolo protocollato da Giuliano Muzio
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