Scoprire un nuovo autore o una nuova autrice per me è sempre entusiasmante, in particolare se si tratta di entrare in contatto con culture lontane dalla nostra. Così, quando ho iniziato la lettura de “Le bugie sepolte nel mio giardino” di Kim Jin Yeong, ero piuttosto carico di aspettative. E, alla fine, questo romanzo pubblicato da Giunti e tradotto da Anthea Volpe non mi ha per nulla deluso, anzi, mi ha decisamente convinto.
Siamo in Corea del Sud, nei dintorni della capitale Seoul, e una delle due protagoniste del romanzo, Ju-Ran, si è da poco trasferita in una nuova casa in una zona residenziale di lusso. Ju-Ran fa la casalinga e passa abbastanza noiosamente il tempo nella sua abitazione in attesa del marito, famoso pediatra. L’altra protagonista, Sang-Eun, fa invece la commessa in un negozio di arredamento e vive in una zona popolare. C’è una cosa però che le unisce: il marito di Sang-Eun fa il rappresentante farmaceutico e vende farmaci al marito di Ju-Ran. I due quindi si conoscono e decidono di andare a pescare insieme una sera. Ma proprio quando il marito esce per andare a pesca, Ju-Ran fa una strana scoperta: nel giardino della propria nuova casa è sepolto un cadavere. E dal momento in cui la donna scopre questa cosa, nulla sarà più come prima.
L’autrice escogita una narrazione assolutamente originale, non solo per i contenuti, ma anche per la modalità con la quale la storia viene raccontata, perché le due donne protagoniste fanno una sorta di controcanto, narrando alternativamente gli eventi, ciascuna dal proprio punto di vista. Succede così, abbastanza di frequente, che lo stesso episodio ci venga raccontato due volte, da due punti di vista spesso molto distanti tra loro. Questa tecnica, che non è una novità assoluta, ci aiuta a “scavare” nella realtà (in questo romanzo si scava molto, nei giardini, ma anche dentro sé stessi) e, allo stesso tempo, ci impedisce di conoscere fino in fondo la realtà, perché di ogni avvenimento non sappiamo mai bene quale delle due sia la narrazione più fedele.
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Proprio questo sembra essere il tema di fondo del romanzo: l’inafferrabilità del reale, la difficoltà nel mettere a fuoco fino in fondo la dimensione ultima delle cose. Gli equivoci infatti si accavallano nella storia della Jin-Yeong e quando una delle due narratrici sembra essere finalmente arrivata a decifrare uno dei tanti enigmi che caratterizzano questa vicenda, nelle sequenze successive si capisce che le cose non erano come si pensava che fossero. Voleva realizzare un film Kim Jin-Yeong, questo ci dice nella nota finale (sempre da leggere perché chiarisce diversi aspetti). E infatti la narrazione è assolutamente cinematografica, perché le sequenze che si rimpallano sembrano scene da set.
Alla fine, rimane nel lettore questo particolare senso di straniamento derivante da una realtà mai fino in fondo chiarita. Ci si accorge che tutto sommato c’è una versione dei fatti abbastanza plausibile, ma questa non diventa mai una certezza assoluta. L’unica certezza è la dimensione disumana degli esseri umani. Il loro lato ferino e bestiale, capaci di tutto, mai paghi, cinici. Se avete visto “Parasite” capite di cosa sto parlando. Il tutto raccontato con uno stile che disvela una particolare tipologia di ironia (sarà possibile dire “di stampo coreano”?), molto diversa dallo humor britannico, ma non meno accattivante. Tanto ci sarebbe ancora da dire. Giovani adolescenti smarriti, colleghi di lavoro rapaci, questione di genere, omofobia strisciante, patriarcato imperante. Una violenza che non scandalizza più, ma che sembra diventata un passatempo. Tutti temi molto occidentali, ma raccontati con quella delicatezza, quella grazia, quella capacità narrativa suadente e raffinata che ci aiuta a capire che abbiamo a che fare con un’autrice veramente molto molto brava.
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