Le Mura della Malapaga, ovvero educazione alla vita e alla delinquenza di un adolescente, nel cuore di una Genova a metà tra la Chicago anni trenta e la città cantata decine di volte da De Andrè.
Titolo: Le mura della Malapaga
Autore: Enzo Chiarini
Editore: Fratelli Frilli
Anno di Pubblicazione: 2009
Pagine: 238
Trama in sintesi.
Il giovane protagonista probabilmente si chiama Vittorio, tutti lo chiamano Vittò. E’ un ragazzino senza peli sul petto e con la bocca ancora sporca di latte, che vaga per i vicoli e i bar della Genova degli anni settanta atteggiandosi a duro e alla ricerca di una strada che lo faccia diventare delinquente come quei pezzi da novanta che lui ammira, e che ancora non ha imparato a distinguere per quelli che sono: dei rifiuti umani. Trova ben presto il suo mèntore in Santo Denovo, uno dei capi quartiere che gestisce i giri di droga e prostituzione non lesinando terrore e piombo per chi gli si para davanti. Lo svezzamento di Vittorio arriva ben presto, e nel modo più crudele: una violenza lacerante che gli marcherà l’anima come un sigillo a fuoco, destinato a non lasciarlo mai. Da quel momento in poi sarà tutto un’escalation di sangue e di perdizione. Vittorio piomberà sempre più a fondo, nell’illusione di elevarsi sempre più in alto, e ogni gradino al contrario di questo incidentato percorso sarà accompagnato da una crudeltà senza sconti.
Narrato in prima persona, Le Mura della Malapaga è un crudo racconto di vita, offerto al lettore senza alcuna finzione o annacquamento. La cifra del romanzo è la violenza, presente in ogni pagina, quasi in ogni parola; descritta crudemente, mai edulcorata, esposta con una puntigliosità che sembra fatta apposta per disturbare.
La violenza come destino, un destino ineluttabile, almeno per certe persone che nascono dalla parte sbagliata delle mura. O per quelle che, pur nascendo dalla parte giusta, hanno la sventura di incrociare la propria vita con quella di coloro che sono già marchiati, senza rimedio alcuno.
Il linguaggio narrativo è in coerenza con tutto ciò: un resoconto dell’inferno con tono freddo, quasi distaccato, senza dubbio privo di ogni disincanto, pur con qualche raro cedimento al registro sofisticato che suona un po’ fuori contesto. Come quando, verso la fine, mette in bocca al protagonista principale dialoghi che non appartengono al suo lessico, quasi che il narratore abbia improvvisamente trasfigurato il personaggio. Ma sono piccoli peccati, del tutto veniali. Niente al confronto a quel senso di partecipazione che si prova nell’assistere alla discesa agli inferi di un’anima condannata prima ancora di venire al mondo. E nello scoprire che per certi reietti non esiste redenzione, ma solo l’illusione della stessa. Un velo sottile e opaco, oltre il quale si cela un abisso ancora più profondo.
Cristiano Idini
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