Concludiamo la recensione di “Romanzo nero” (Mondadori, 2019) dell’autore Giuseppe Genna, con il quinto e ultimo titolo che compone questa interessante raccolta, vale a dire il romanzo Le teste,  edito per la prima volta nel 2009 nella storica collana “strade blu” dell’editore lombardo.

Concepito originariamente con il titolo Digesto delle teste, quest’opera di lunga gestazione inizia inconsciamente quando l’autore ha soltanto undici anni e si trova coi genitori su una spiaggia nel ravennate. È allora che vede due ragazzi tedeschi estrarre dall’acqua un sacchetto di plastica, trovato sotto le rocce di un moletto. Il sacco contiene una testa di donna.

Quasi trent’anni dopo, Genna prende a pretesto quell’episodio dell’infanzia per delineare il plot di questo romanzo.

Sono le ore due di un brumoso pomeriggio meneghino. Nevica, mentre una Milano livida e decadente si approssima al Natale. Sono giorni solitari e infami, letargici. Gli uffici dell’Investigativa in Via Fatebenefratelli sono desolati. C’è soltanto lui, l’apatico ispettore Guido Lopez, prossimo a svolgere la sua quinta e ultima indagine, alla cui serie – iniziata nel 1999 col romanzo d’esordio Catrame – è dedicata l’intera raccolta Romanzo nero. Genna – lo confessa in un’intervista al “Corriere della sera” – ormai odia Lopez, perché l’ispettore è un personaggio disgustato da sé stesso e dal mondo che lo circonda, una figura senza profondità, uno che non si sa che aspetto abbia e che non telefona mai alla mamma. In realtà il suo creatore lo odia (forse come un drogato odia la droga, o meglio come Simenon era giunto a odiare Maigret) soprattutto perché il poliziotto è programmato quasi meccanicamente per portare sempre a compimento le indagini, quindi è una sorta di elemento funzionale al meccanismo seriale del giallo e del thriller; meccanismo che l’autore (a buon diritto) aspira a fare implodere, a superare e rivoluzionare.

Ma torniamo alla trama. Lopez rientra dalla pausa pranzo con un “andreottiano” mal di testa.  A scuoterlo dalla monotonia ci pensa prima un uomo dei servizi segreti, che si presenta nel suo ufficio per assoldarlo (o meglio per ricondurlo all’ovile, visto che l’ispettore è da poco rientrato all’Investigativa dopo una proficua parentesi all’Agenzia Europea), e subito dopo un’insolita telefonata anonima che gli annuncia un macabro ritrovamento. Approfittando del passaggio di una volante, si reca difilato al Forlanini, vasto parco sul lago artificiale dell’Idroscalo. Viste le temperature, l’acqua è congelata. Sotto lo strato di ghiaccio i sommozzatori hanno rinvenuto il corpo di un uomo anziano, ma anche la testa mozzata di una donna bionda, caucasica, dalla carnagione molto chiara. Neppure il tempo di pregustare le soporifere festività natalizie, che per l’ispettore si prospetta un caso impegnativo e ferale. Decapitazione rituale? Corruzione? Malavita organizzata? L’assenza del suo capo, Santovito, permette a Lopez d’infrangere qualche regola, e di avvalersi per l’indagine di un nuovo interessante personaggio: lo zelante “tenentino” Mario Orfeo. Mentre l’immagine di quella testa recisa continua a ossessionarlo, l’intelligence gli affida una consegna a Londra. Pagina dopo pagina l’intreccio si ingarbuglia, si accresce l’entropia e il lettore viene coinvolto nel cuore di un intrigo al fulmicotone.

Se la trama appare ancora “di genere”, i contenuti non lo sono più. Come spesso accade con i romanzi di Genna, ci troviamo al cospetto di un opera di complessa catalogazione, una sorta di zibaldone e coacervo di saggistica e narrativa, un cross-over che integra elementi di giallistica con suggestioni da spy story, la cronaca e la politica con il thriller e il noir, il tutto condito con spezie esoteriche e odori da letteratura cospirazionista, che conferiscono al tutto un retrogusto originale e pungente.

Alla narrazione plumbea e tagliente degli eventi (in terza persona) si alterna un flusso di coscienza meditativo (in prima persona), che da un lato spezza il passo rapido ma cadenzato del racconto e destruttura l’ossatura del giallo,  dall’altra gli conferisce un maggiore spessore psicologico e filosofico – rischiando forse di irritare il lettore maldisposto verso questo genere di sperimentazioni.

La nostra sensazione è infatti che Genna scriva sotto l’impulso inderogabile della propria ispirazione, senza troppo strizzare l’occhio al galateo, senza fare molti sconti ai desiderata del lettore, poco curante di limare le punte più psicotrope e allucinate della sua prosa.

Questa sensazione si rafforza proprio nei ricorrenti “inserti” in prima persona, che sembrano scollegati da tutto il resto, mentre sono in realtà integrati con sapienza. Non si tratta – lo diciamo subito – del classico stratagemma della tradizione del thriller americano, che intermezza la storia con riflessioni o gesta dell’antagonista o del serial killer. Al contrario, in questo caso, si tratta di innesti quasi metafisici, che contengono in prevalenza approfondimenti e citazioni sulle teste mozzate, che ben potrebbero simboleggiare l’essere (o meglio il problema dell’essere), ma che sono anche teste concrete, capocce, come quella dell’imprenditore Nicholas Berg, decollato dai terroristi fondamentalisti. È proprio in questa dimensione narrativa che la scrittura di Genna si fa particolarmente figurativa e allusiva, ricca di meta-significati e meta-significanti, a tratti anche visionaria. Ci regala rapidi flash che illuminano la scena come occhi di bue intermittenti, come fasci di luce che fendono il buio esaltando elementi evocativi e simbolici. Un esempio significativo è già nell’incipit, che ci imprime nella testa immagini che richiamano alla mente un parto, un’operazione ai denti, una decapitazione. Vita sofferenza e morte. L’autore racconta attraverso frammenti, perché l’esistenza contemporanea è un’esperienza spezzettata e post-traumatica. Racconta anche e soprattutto per immagini e ambiguità. Per rendere l’idea potremmo scomodare addirittura “l’apostolo dei Gentili”, San Paolo, mutuando una sua frase sul significato allegorico dello speculum: “Videmus nunc per speculum in enigmate, tunc autem facie ad faciem” (“Ora vediamo le cose attraverso uno specchio, per enigmi, ma un giorno le vedremo faccia a faccia”).

L’unica cosa che ci lascia perplessi in questo romanzo è la copertina, forse un po’ aliena dal contesto, ma al di sotto della quale riteniamo che ogni singola parola meriti d’essere letta.

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Articolo protocollato da Leonardo Dragoni

Romano, classe 1974, dottore in scienze politiche con due master e varie esperienze umane e lavorative, si è tardivamente innamorato di scrittura creativa e di narrativa, in particolar modo quella gialla e noir ad ambientazione storica, generi nei quali ha pubblicato due romanzi ("La psicologia del viola", 0111 Edizioni, 2015; "I figli dell’oblio", Clown Bianco Edizioni, 2018 - candidato al premio internazionale Lattes Grinzane).

Leonardo Dragoni ha scritto 59 articoli: