The Hollow Man fu scritto nel 1935, ed è il sesto romanzo ad avere per protagonista il personaggio del dottor Gideon Fell, creato da John Dickson Carr. Conosciuto anche con il titolo americano The Three Coffins, è stato pubblicato in Italia da Mondadori con il titolo Le tre bare. È considerato da sempre uno dei capolavori assoluti degli enigmi della camera chiusa, in cui la vittima viene trovata in una stanza chiusa a chiave, da cui pare impossibile che l’assassino abbia potuto entrare o uscire. Carr è, infatti, considerato ancora oggi il più grande scrittore di questo genere giallo.
John Dickson Carr (1906-1977) is well known as the unquestioned master of the “locked-room” mystery or, more generally, the “impossible crime.” Perhaps no writer ever concocted such baffling and complex mysteries, or exercised so much ingenuity in hoodwinking and bamboozling the reader.
Introduzione, in S. T. Joshi, John Dickson Carr: A Critical Study, Bowling Green State Univ Popular Press, 1982
Trama
In una nevosa serata d’inverno, un uomo mascherato si presenta a casa di Charles Grimaud e si richiude con lui nello studio. Poco minuti dopo risuona uno sparo.Il segretario e la governante forzano la porta chiusa dall’interno, ma nella stanza c’è solo il professore, ferito mortalmente da un colpo di pistola, che pare essere svanita nel nulla. La finestra è inaccessibile e sulla neve attorno alla casa non vi è alcuna impronta.
Hadley sollevò il telaio della finestra. Neve intatta… neve che arrivava fino all’intelaiatura stessa… copriva tutto l’ampio davanzale esterno… C’erano buoni quindici metri fino a terra; la parete era di liscia pietra umida. Sotto, c’era un cortile posteriore, come in tutte le case di quella fila, recintato da un muretto. La neve in quel cortile era intatta, come da qualunque altra parte e così sopra i muri.
Pochi minuti dopo, in un via vicina all’abitazione di Grimaud, si ode un altro sparo. Un uomo è stato colpito da una pallottola sulla schiena, sparata a bruciapelo. Si tratta della stessa pistola che ha ucciso Grimaud e che ora si trova presso il cadavere. Ma anche in questo caso il corpo giace morto in mezzo a una distesa di neve intatta, senza impronte di passi intorno se non le sue.
Il dottor Gideon Fell scoprirà che i due delitti sono legati ad un misterioso luogo della Transilvania, ad un quadro inquietante che raffigura tre bare, e alle abili capacità illusionistiche di…
Perché leggere Le tre bare?
Fin dall’inizio, il romanzo di Carr introduce il lettore in un mondo dove magia, illusionismo e superstizione stemperano i contorni ben definiti della realtà: personaggi che si interessano di fantasmi, vampiri e occultismo; un quadromisterioso e inquietante che raffigura un paesaggio della Transilvania; il passato che ritorna.Quelli elencati sono alcuni degli espedienti utilizzati da Carr per coinvolgere il lettore nell’indagine e creare, contemporaneamente, un’atmosfera gotica, ideale per far credere che tutto può accadere. Basti citare l’inizio del libro, in cui il narratore dichiara che “erano stati commessi due delitti in modo tale che l’assassino doveva essere stato non soltanto invisibile, ma più leggero dell’aria”. Lo scrittore americano puntava molto sull’atmosfera inquietante e soprannaturale dei suoi romanzi, tanto da scegliere con particolare cura dei titoli che spesso non avevano nulla a che fare con le trame, come evidenziato daS. T. Joshi.
What separates Carr from most other mystery writers, and what gives his own detective stories their distinctive flavour and atmosphere, is their suggestion of the supernatural- We can see this in the very titles of some of Carr’s novels, titles that could serve perfectly for works of Gothic fiction: It Walks by Night, Castle Skull, Hag’s Nook, To Wake the Dead, The Man Who Could Not Shudder, He Who Whispers, The Witch of the Low-Tide, or—more pulpishly—The Curse of the Bronze Lamp. As we reflect on it, several of these titles actually have little to do with the content of the novels, and indicate that Carr chose them precisely for their eerie suggestiveness. Carr had a lifelong fascination with the supernatural in fact and in fiction; it is no surprise that Dr. Fell wrote a treatise on the subject.
(S. T. Joshi, John Dickson Carr: A Critical Study, Bowling Green State Univ Popular Press, 1982, p. 113)
Carr è un maestro nell’orchestrare i sospetti e l’atmosfera da incuboe spinge il lettore a sospendere l’incredulità, facendogli credere che forse l’omicidio è stato proprio commesso da un fantasma, un essere incorporeo o demoniaco. Quasi tutti i romanzi di Carr, che vanno dagli anni trenta agli anni settanta, si sviluppano in questo modo.
Il primo personaggio de “Le tre bare”, introdotto da Carr, è Pierre Fley, un mago illusionista specializzato in trucchi di sparizione. Questi minaccia il professor Charles Grimaud, uno studioso di “manoscritti della magia minore”.
Il professor Grimaud era stato insegnante, popolare conferenziere e scrittore. Ma negli ultimi tempi non faceva più nulla: occupava un posto vago e senza stipendio presso il British Museum per aver accesso a quelli che lui chiamava i “manoscritti della magia minore”.
La magia minore era l’hobby di cui lui aveva fatto la ragione della sua vita: qualunque forma di pittoresca diavoleria sovrannaturale, dal vampirismo alla Messa Nera, su cui lui sghignazzava divertendosi come un ragazzo…
Nei giorni che seguono Grimaud s’interessa ad un misterioso quadro che raffigura un paesaggio tenebroso, gli alberi contorti e sferzati dal vento, e tre bare in fila. Lo studioso è convinto che il quadro gli salverà la vita. In realtà il quadro è legato al suo passato di cui nessuno sa nulla. Tutto questo in preparazione del delitto impossibile, un omicidio che è un vero e proprio enigma: Grimaud viene ucciso in una stanza chiusa a chiave, da cui sono spariti l’assassino e l’arma del delitto.
Purtroppo, il fin troppo abusato repertorio dei colpi di scena scivola più volte nella teatralità da baraccone; la trama è talmente tesa, nello sforzo di stupire, che la soluzione finale risulta troppo complessa e inverosimile. I personaggi, inoltre, sono privi di spessore, dato che l’autore è più interessato a costruire un omicidio impossibile che a scoprire le motivazioni del delitto.
K. Chesterton ammoniva che «the whole point of a sensational story is that the secret should be simple». La verità molto semplice, da raccontare all’ultimo capitolo in poche parole, fa da contrappunto alla menzogna, cioè all’apparenza fallace, che aveva mostrato dapprima all’investigatore una situazione estremamente complicata. La «detection» non serve solo a passare dall’inganno al vero, ma anche dal complicato al semplice, altrimenti l’effetto finale è perduto nella noia del lettore.
(Ernesto G. Laura, Storia del giallo da Poe a Borges, Nuova Universael Studium, 1981, p. 197)
“Le tre bare”, come molti altri gialli di Carr, da questo punto di vista, non è certo un’opera ben riuscita: la soluzione è cervellotica e la spiegazione si dilunga per talmente tante pagine da stremare anche il lettore più appassionato.
Quanto detto vale per noi scafati lettori contemporanei. Se però indossiamo i panni del lettore degli anni trenta, comprendiamo come “Le tre bare”siano riuscite ad ammaliare tante persone avide di delitti impossibili.
Ancora oggi, il romanzo è letto da milioni di appassionati dell’epoca d’oro del mystery e ripubblicato periodicamente dalle case editrici. La longevità del libro è sicuramente legata più che all’intreccio alla lunga e famosissima conferenza del dottor Fell, in cui vengono elencati gli ingegnosi metodi usati dagli scrittori per ambientare i delitti in una camera chiusa dall’interno.
Like The Poisoned Chocolates Case, this is both a detective story and a book about detective stories, brilliantly woven together so that the commentary hides clues to the murders, and the murders themselves provide some of the commentary. (Come “Il caso dei cioccolatini avvelenati”, questo è contemporaneamente un giallo e un libro sui libri gialli, brillantemente intrecciati insieme,così che il commento nasconde indizi sugli omicidi, e gli omicidi forniscono a loro volta dei commenti…
(Cfr. A G McLean, Carr, John Dickson – The Hollow Man aka The Three Coffins)
Sulla famosa conferenza de “Le tre bare” è stato scritto già molto. A chi fosse interessato, consiglio quello che considero il migliore articoloitaliano della rete sull’argomento: Pietro De Palma, Dissertando di Camere Chiuse: John Dickson Carr Vs Clayton Rawson.
Approfondimenti tematici
“Le tre bare” e la “la rottura della quarta parete” di Bertolt Brecht…
Interessante per l’epoca il modo in cui Carr porti alle estreme conseguenze il rapporto con il lettore, facendo rompere al dottor Fell quel tacito patto, che esiste tra lettore e romanzo, chiamato sospensione dell’incredulità (di cui abbiamo già parlato nell’articolo L’orlo dell’abisso di Hake Talbot).
Il termine fu coniato nel 1817 dal poeta e filosofo estetico Samuel Taylor Coleridge. Si tratta di un elemento fondamentale utilizzato dal lettore per vivere più intensamente la storia che sta leggendo.
Si tratta di un punto centrale dell’esperienza letteraria: senza questa risposta della mente umana, gran parte dei nostri rapporti con la letteratura sarebbero impossibili e il ruolo dell’arte stessa diventerebbe marginale e forse irrilevante nell’esperienza umana. Questa sospensione dell’incredulità è «volontaria»: infatti scegliamo liberamente di aprire un libro e di leggerlo come testo letterario, seguendo delle convenzioni che ci sono state insegnate. Essa costituisce un «momento», cioè essa si esaurisce alla fine dell’atto di lettura: una volta che abbiamo chiuso il libro, concludiamo una parentesi di finzione, per tornare nel mondo che ci circonda, nel quale le verità del libro letto non sono più valide.
Nemesio Aldo, «Il momento di volontaria sospensione dell’incredulità», in Sublime e antisublime nella modernità, a cura di M. Paino e D. Tomasello, ETS, 2014, pp. 671-680
Molto spesso gli autori negli incipit dei loro romanzi, per intensificare la “suspension of disbelief”, dichiarano che la storia narrata deriva da manoscritti ritrovati o da diari. È famoso il caso de Il nome della rosa di Umberto Eco: “Il 16 agosto 1968 mi fu messo tra le mani un libro dovuto alla penna di tale abate Vallet, Le manuscript de Dom Adson de Melk, traduit en français d’après l’édition de Dom J. Mabillon (Aux Presses de l’Abbaye de la Source, Paris, 1842). Il libro, corredato da indicazioni storiche invero assai povere, asseriva di riprodurre fedelmente un manoscritto del XIV secolo…”.
Dickson Carr, invece, tramite il dottor Fell, confessa che “Le tre bare” è un romanzo poliziesco.
«Perché,» rispose il dottore, tranquillamente, «siamo in una storia poliziesca e non dobbiamo ingannare il lettore fingendo di non esserci. Non dobbiamo inventare scuse elaborate per tirar dentro una discussione sui racconti polizieschi. Occupiamoci beatamente della più esaltante missione concessa ai personaggi di un libro…
Lo scrittore sembra ispirarsi all’opera teatrale di Bertolt Brecht, che teorizzò “la rottura della quarta parete”, ossia quando uno dei personaggi del dramma si rivolge direttamente al pubblico, rivelandogli che l’azione e i personaggi stanno recitando e quindi non sono reali. Tale tecnica fu utilizzataanche da Luigi Pirandello, soprattutto nel famoso Sei personaggi in cerca d’autore(1921).
This is surely a remarkable piece of writing, and Carr—quite unwittingly—anticipates some very avantgarde techniques of metafiction by having his characters realise that they are merely characters in a book… That Carr would so readily destroy the illusion of realism with this pseudo- authorial intrusion means that what he (through Fell) is about to say is of enormous importance to him.
(S. T. Joshi, John Dickson Carr: A Critical Study, Bowling Green State Univ Popular Press, 1982, p. 98)
Carr invita, inoltre, il lettore a leggere la storia con attenzione e lo sfida a trovare la soluzione dell’enigma, ispirandosi a un altro famoso scrittore dell’epoca, Ellery Queen (pseudonimo di Frederick Dannay e Manfred B. Lee), che era solito far precedere la soluzione dell’indagine da una vera e propria “sfida al lettore”. In questo modo, Carr veniva meno alla tecnica della “Suspension of disbelief”, e instaurava un vero e proprio rapporto interattivo tra scrittore e lettore. La conferenza sulla “camera chiusa”, infatti, non è solo un elenco dei vari modi in cui è possibile assassinare una persona dentro una stanza, ma anche una difesa del mystery vecchia maniera rispetto all’hard-boiled che, in quegli anni, iniziava a riscuotere un enorme successo. Basti pensare che “Il falcone maltese“ di Hammett veniva pubblicato nel 1929, mentre il film omonimo usciva nel 1931 (naturalmente la prima versione diretta da Roy Del Ruth e interpretato da Ricardo Cortez; il ben più famoso Il mistero del falco, diretto da John Huston e interpretato da Humphrey Bogarte e Mary Astor, uscì nelle sale sono nel 1941).
La difesa del mystery classico, il paralogismo di Aristotele… Donato Carrisi e Gillian Flynn
Bertolt Brecht, verso la metà degli anni trenta, ossia nello stesso periodo in cui Carr pubblicò “Le tre bare”, scrisse un articolo in difesa del giallo classico. L’articolo si intitolava Über die Popülaritàt des Kriminalromans, e fu pubblicato in Italia in Scritti sulla letteratura e sull’arte (Torino, Einaudi, 1973, pp. 290-295) con il titolo Sulla popolarità del romanzo poliziesco.
Carr non ebbe certo modo di leggere l’articolo di Brecht, che fu pubblicato la prima volta solo nel 1967, ma il fatto che il grande drammaturgo lo avesse scritto intorno alla metà degli anni trenta è significativo. Proprio nel marzo del 1935, infatti, la famosa Dorothy Leigh Sayers tenne una conferenza a Oxford, intitolata Aristotele on Detective Fiction in “English”, che divenne poi un saggio pubblicato l’anno successivo. La famosa creatrice diWhose Body? (Peter Wimsey e il cadavere sconosciuto, 1933) era una donna molto erudita (laureata a Oxford nel 1915 e autrice di saggi di teologia) che sconvolse i circoli accademici di Oxford con la sua conferenza a difesa del genere giallo, in cui dichiarava che la “Poetica” di Aristoteleera un manuale per scrivere romanzi polizieschi.
Abbiamo quindi tutta una serie di scrittori che, negli anni trenta, sentirono il bisogno di difendere il giallo classico dalla minaccia “verista” americana, costituita dai romanzi hard-boiled.
Dorothy Leigh Sayers, nel suo saggio, definisce cruciale il passo della Poetica di Aristotele, in cui il filosofo
“condensa l’intero magistero dell’autore di romanzi polizieschi in una sola parola chiave: paralogismo. Questa parola dovrebbe essere scritta a lettere d’oro sulle pareti dello studio di ogni propalatore di misteri… paralogismo, o arte del falso sillogismo… «Omero — scrive Aristotele…— ha insegnato benissimo anche agli altri come si raccontano falsità nel modo adattoe questo modo è il paralogismo…». Ecco fatto; abbiamo la ricetta del racconto poliziesco: l’arte di raccontare il falso. Dal principio alla fine del libro, lo scopo, l’obiettivo principale è dunque di ingannare il lettore, di indurlo a credere al falso. Far credere che il vero assassino sia innocente, che una persona innocua abbia commesso il delitto; far credere che il detective sia nel vero mentre invece è in errore e che sbagli quando vede giusto; far apparire fondato un alibi falso, presente chi era assente; far credere che il morto sia ancora in vita e chi è ancora in vita sia morto; in breve,far credere tutto, qualsiasi cosa, fuor che la verità…
(Cfr. Il racconto poliziesco secondo la “Poetica” di Aristotele, ovvero l’arte di raccontare il falso, in La trama del delitto. Teoria e analisi del racconto poliziesco, a cura diRENZO CREMANTE e LORIS RAMBELLI, Pratiche Editrice 1980, pp. 72-73).
Chi leggerà il capitolo sulla “camera chiusa”, contenuto ne “Le tre bare”, e il saggio della Sayers, troverà diverse analogie; e non è azzardato supporre, dato il notevole scalpore che ebbe all’epoca la conferenza della scrittrice inglese, che Carr ne sia stato influenzato. Si tenga presente che Carr e la Sayerssi conoscevano e facevano parte entrambi del famoso LondonDetection Club. Nel 1933, inoltre, la Sayers, in occasione della pubblicazione di The Mad Hatter Mystery (Il cappellaio matto, pubblicato in Italia da Mondadori), scrisse anche una recensione sul romanzo di Carr, aiutando molto la carriera del giovane scrittore americano, da poco trasferitosi a Londra.
“Mr. Carr can leadusaway from the small, artificial world of the ordinary detective plot into the menace of outerdarkness. He can create atmosphere with an adjective, and make a picture from a wetironrailing, a dustytable, a gas-lamp, blurred by the fog. He can alarm with an illusion or delight with a rollickingabsurdity. He can invent a passage from a lost work of Edgar Allan Poe whichsoundslike the realthing… everysentencegives a thrill of positive pleasure.”
Dorothy L. Sayers (citato in S. T. Joshi, John Dickson Carr: A Critical Study, Bowling Green State Univ Popular Press, 1982, p.125)
Un ultimo appunto personale: è incredibile notare, leggendo le poche righe citate sopra sul paralogismo,come la tecnica narrativa di alcuni scrittori di successo contemporanei si ispiri ancora adesso alle stesse regole. Sto pensando al bellissimo “La ragazza della nebbia” di Carrisi, che ho terminato di leggere qualche giorno fa, e“L’amore bugiardo” di Gillian Flynn.
Il mistero della camera chiusa e la vittoria della ragione sulle forze oscure del caos…
Nei capitoli finali, come sempre nei romanzi di Carr, il delitto impossibile vienespiegato razionalmente dal grande detective Gideon Fell, e ancora una volta le nebbie infernali che avevano avvolto l’esistenza sono spazzate via dal lume della ragione, come era richiesto dal canone poliziesco dell’epoca.
Già nel primo capitolo del romanzo, Carr anticipa i canoni che guidano la sua arte poliziesca, ossia la ragione che spiega come magia, occultismo e apparizioni fantasmatiche siano solo delle superstizioni.
A me interessano le cause che hanno fatto nascere queste superstizioni. Come è cominciata la superstizione? Cos’è che le ha dato forza, perché i gonzi vi credessero? Per esempio: prendiamo la leggenda del vampiro. Si tratta di una credenza che prevale nelle terre slave… Bene, come riuscì l’Ungheria a provare che i morti potevano uscire dalle loro bare e fluttuare per l’aria sotto forma di fuscelli o di piume finché non riprendevano sembianze umane per poi assalire i vivi?… Esumarono i cadaveri dai cimiteri. Ne trovarono alcuni in posizione contorta, con la faccia e le mani e i sudari insanguinati. Quella fu la loro prova… Ma, perché no? Erano gli anni della peste. Pensate a tutti quei poveri diavoli che venivano seppelliti vivi perché li credevano morti. Pensate a come dovevano aver lottato per uscire dalla bara prima di morire veramente. Capite, signori? Questo è ciò che io intendo per cause dietro la superstizione. Ed è questo che m’interessa.»
Agatha Christie, Ellery Queen e Carr erano tutti scrittori appartenenti all’epoca d’oro del mystery che condividevano l’utilizzo, nel romanzo poliziesco, di un finale tranquillizzante con lieto fine, in cui la ragione si imponeva sull’irrazionale che fino a quel momento pareva aver dominato la scena e il delitto. Il detective, guidato dalle sue grandi doti intellettuali, smascherava l’assassino simbolo del male e del caos, e risolveva
un enigma che fino ad allora aveva ridotto il mondo ad una parvenza oscura e di angosciante assurdità. E quanto più fitto era stato il buio, tanto più luminoso si irradia il trionfo della ratio, davanti al quale tutto ciò che prima era sembrato incomprensibile e problematico scompare senza lasciare traccia.”
(Cfr. ULRICH SCHULZ-BUSCHHAUS, Gli inquietanti romanzi polizieschi di Sciascia, in Problemi 71 – 1984 -, 289-301; anche in Institut für Romanistik | Karl-Franzens-Universität Graz).
I brani citati sono tratti da John Dickson Carr, Le tre bare, I Classici del Giallo Mondadori N.234, 1976, traduzione di Maria Luisa Bocchino.
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