liberty-bar-simenonLiberty Bar è il XVII romanzo di Georges Simenon con protagonista il commissario Maigret. Fu scritto, nell’aprile del 1932, presso la tenuta La Richardière di Marsilly in Francia e pubblicato nel luglio dello stesso anno da Fayard. In Italia fu pubblicato per la prima volta nel 1934 dalla Mondadori, nella collana “I gialli economici”, con il titolo Liberty Bar.

TRAMA

Maigret viene inviato ad Antibes, sulla Costa Azzurra, per indagare sull’omicidio di William Brown, un australiano che «aveva la faccia tosta di assomigliargli». La vittima, uccisa con un coltello a serramanico, è un ex agente dei servizi segreti francesi, per cui viene chiesto a Maigret di indagare con la massima discrezione:

«Un certo Brown è stato assassinato a Cap d’Antibes. I giornali ci ricamano sopra. E sarebbe meglio evitare grane!».
«Ricevuto!».
«Durante la guerra Brown ha svolto degli incarichi per i Servizi Segreti».
«Ricevuto!».

Maigret inizia le indagini percorrendo passo per passo gli ultimi mesi di vita di Brown, visitando i luoghi che lui frequentava:una villa ad Antibes, dove viveva assieme alla sua amante, Gina Martini e alla madre di quest’ultima; e il Liberty Bar, a Cannes, “la casa dove non si parlava mai del passato”, un locale frequentato da personaggi che sembrano aspirare solo a essere dimenticati dal mondo.

«Era un tipo triste?».
Un altro sospiro.
«Non riesce proprio a capire? … Lei ha visto Yan…Direbbe che è un tipo triste?… Ma no, non è l’esempio giusto… Io le sembro un tipo triste?… Eppure si beve, poi si dicono tante cose senza capo né coda e vien voglia di piangere…».

Ed è qui che Maigret viene a contatto con la parte più oscura della vita di William Brown, che una volta al mese fuggiva dalla villa, per avventurarsi nei sordidi vicoli del porto di Cannes. Ed è sempre qui che Maigret inizia a capire chi fosse la vittima e come conducesse una doppia vita. Il commissario si immergerà talmente nell’atmosfera “un po’ sordida del Liberty Bar”, da immedesimarsi nel suo alter ego William Browne alla fine dovrà fare i conti non solo con i codici della legge ma anche con la sua coscienza …

Perché leggere Liberty Bar?

Tra i primi 19 Maigret, scritti tra il 1931 e il 1934, Liberty Bar, insieme con il successivo La chiusa n. 1, è uno di quelli che più anticipa le atmosfere e lo stile dei successivi, scritti dal 1942 in poi. Nella storia non mancano i tipici ingredienti del poliziesco, quali l’omicidio, il passato di agente segreto della vittima, il testamento, le prostitute e i ruffiani, ma sono i dialoghi e la descrizione degli ambienti a prevalere. Simenon, inoltre, evita qualsiasi scena d’azione o meccanismo tratto dal giallo ad enigma, come capita invece spesso nei primi romanzi della saga. Se da un lato la trama guadagna in credibilità, la lettura, a causa del ritmo lento e dell’uso copioso di dialoghi, non è particolarmente appassionante.
La maggior parte della storia si svolge al Liberty Bar, una specie di seminterrato buio con una sola finestrella che si affaccia su un cortile. La prima impressione di Maigret è quella di un piccolo bar, gestito in modo familiare da Jaja, una donna grassa e molto cordiale. In questo luogo appartato, si ritrovano alcuni personaggi che sembrano voler sfuggire alla realtà e alla loro esistenza, anzi al loro fallimento esistenziale. E per questo forse anche Maigret ne rimane a sua volta affascinato, o forse è il suo immedesimarsi nella vittima a renderlo ricettivo nei confronti di quel luogo surreale. Una pacata atmosfera, comunque, che muta registro solo nel finale, quando la vicenda si trasforma improvvisamente in dramma con il tentato suicidio di Jaja, completamente ubriaca e fuori di sé.
Nel romanzo, Simenon utilizza due temi legati strettamente tra loro e da lui molto amati:

  • la fuga;
  • il doppio.

Partiamo, però, dall’invenzione più bella del libro, ossia il personaggio femminile di Jaja…

Jaja, un personaggio memorabile
Siamo ormai abituati agli stupendi personaggi femminili creati da Simenon; Jaja appartiene a quelli memorabili.
Il desiderio di essere ancora amata di Jaja, protagonista delLiberty Bar, si scontra con la vecchiaia che incombe, con suo corpo sempre meno desiderabile. Sesso, vecchiaia e morte sono legati tra loro e costringono Jaja a confrontarsi con la giovane Sylvie e quindi anche con se stessa e la propria inadeguatezza.
Se, all’inizio del romanzo, Jaja sembra aver accettato la propria condizione di donna matura, ossia il proprio ruolo all’interno della società (Sylvie, infatti, la vede come una specie di madre), nel lento dipanarsi della vicenda, Maigret avverte sotto l’apparente normalità della superficie l’incrinatura che condurrà alla rottura e al dramma finale. La rabbia di Jaja nei confronti della vita, per le aspirazioni giovanili disattese, per l’amore negato, si manifesta nello sfogo collerico con Maigret. Nello stesso momento, l’odio verso il proprio corpo, vecchio e brutto, si esprime nel taglio dei polsi, nell’eliminazione di ciò che gli altri non guardano e non desiderano più.Per questo Maigret prova una grande compassione per lei.
La gelosia che conduce all’omicidio, il tradimento, la sessualità al di fuori degli schemi sociali, la vecchiaia e la morte, sono tutti temi che percorrono la narrativa del novecento. In Jaja, la consapevolezza del tempo che scorre, amplificata dal tic tac della sveglia e dalla costante presenza della giovane e bella Sylvie, si accompagna ad un bisogno sempre più pressante di esistere attraverso l’amore e il sesso. Un disperato bisogno di sentirsi viva, simile a quello di molti altri personaggi dei grandi romanzi della prima metà del novecento. Non vorrei esagerare, ma credo che Simenon, con le sue opere (soprattutto i romans durs), sia tra gli scrittori che hanno gettato le basi per la creazione di opere al limite, come “Il teatro di Sabbath” di Philip Roth, il cui protagonista Mickey Sabbath è una delle figure emblematiche del secolo appena finito:

… la fuga e il viaggio che lo porta sempre più in prossimità dell’estremo, della disperata voglia di sesso, di vita e di morte, che lo straziano. Nel romanzo di Roth ci sono la vecchiaia, la disperazione, la morte e l’amore e il sesso. Il percorso che abbiamo fatto per giungere dal corpo d’amore, dal corpo che si dischiude o si tende nell’atto sessuale, dal sangue e dai suoi umori, fino alla vecchiaia e alla morte s’addipana ancora, si aggroviglia …

(Franco Rella, Ai confini del corpo, Garzanti 2012)

Sulla donna che uccide è stato scritto molto. A chi avesse voglia di leggere sull’argomento, consiglio l’articolo Lady killer: armate e letali (in Nick Raider. Almanacco del giallo 1994, edizioni Bonelli, pp. 155-165) di Andrea G. Pinketts che, con intelligenza e ironia, riesce in poche pagine a raccontare, in modo approfondito, uno dei topos della storia del giallo.

LA FUGA

In questo romanzo, Simenon narra la storia di un uomo che continua a fuggire da se stesso e dell’inutilità di questa fuga. William Brown, infatti, fugge ben tre volte: la prima volta dall’Australia, la seconda dalla villa di Antibes dove si è formato una seconda famiglia, la terza dalla ingombrante presenza di Jaja.

Ormai Maigret ne sapeva anche troppo! Brown, che in tutta la vita aveva conosciuto soltanto le sue terre, le sue pecore, i suoi vicini e qualche uomo di chiesa, si era dato alla pazza gioia, godendosi tutti quei piaceri di cui fino ad allora non sospettava neppure l’esistenza…

Il tema dell’uomo che si stanca della sua vita piccolo borghese e che si inventa un’altra esistenza è ricorrente in Simenon, come lo è il resoconto drammatico del ripetersi dei medesimi errori da parte del fuggitivo: William, infatti, nella villa di Antibes, con il suo nuovo rapporto con la prosperosa amante Gina Martini e sua madre, ricrea la medesima situazione da cui era fuggito dalla famiglia australiana. Una situazione molto simile Simenon l’aveva già raccontata in “L’ombra cinese”.

Maigret, che si era sistemato di nuovo nella poltrona di Brown, le fissava con uno sguardo privo di espressione, chiedendosi con un certo fastidio:«Come diavolo ha fatto, quell’animale di Brown, a vivere per dieci anni con due donne simili?».
Dieci anni! Lunghe giornate con il sole sempre uguale, il profumo delle mimose e, sotto le finestre, l’ondeggiare di quell’immensità azzurra. Dieci anni di serate tranquille, interminabili, appena increspate dallo sciabordio di un’onda sugli scogli, con quelle due donne, la madre nella sua poltrona, la figlia accanto alla lampada col paralume di seta rosa…

Maigret si rende conto quasi immediatamente della bassezza morale e dell’egoismo materiale delle due donne, con cui William ha vissuto quei lunghi dieci anni; e giustifica quindi la sua ulteriore fuga, una volta al mese, a Cannes, presso il piccolo Liberty Bar (si noti come il bar si chiami appunto libertà). Ma anche questa non è altro che una nuova caduta in una ancora più opprimente prigione, raffigurata dalla stessa descrizione del luogo:

Era un locale piccolo, che misurava non più di due metri di larghezza per tre di lunghezza. Bisognava scendere due gradini, perché era in un seminterrato.
Un bancone stretto. Uno scaffale con una dozzina di bicchieri. La slot-machine. E due tavoli.

I raggi del sole sembrano faticare a penetrare nell’oscurità polverosa del piccolo locale, quasi esso nascondesse segreti che è meglio non conoscere: “il cortile era pieno di sole, tanto che la finestrella si stagliava come un rettangolo accecante e per contrasto si aveva l’impressione di trovarsi in una fredda semioscurità”. E poi il tic tac della sveglia che sembra scandire l’inesorabilità dello scorrere del tempo e della vecchiaia che assedia sempre più da vicino i personaggi, soprattutto Jaja e la vittima, William Brown.

Solo la piccola sveglia continuava la sua vita laboriosa, spingendo avanti sul quadrante sbiadito le lancette nere che sembravano troppo pesanti…
«Tic tac, tic tac, tic tac…».
A tratti quel ticchettio diventava un rumore assordante.

Simenon, in poche pagine, riesce a suggerire il vuoto e l’assurdità di quelle tragiche esistenze. Mi vengono in mente le parole chiarificatrici e disperanti di Claudio Magris sul tempo che scorre, sul divenire che manca di un vero significato esistenziale.

L’età moderna non sembra conoscere il presente, ma soltanto un trascorrere, un divenire percepito non quale arricchimento, quale itinerario verso una meta che infonde significato e sostanza a ogni tappa del cammino, bensì­ quale dileguare, quale continuo non-essere, mancanza di ogni valore cui afferrarsi saldamente.

(Claudio Magris, Itaca e oltre, Garzanti Editore 1982)

Da qui l’ulteriore e inutile tentativo di sfuggire ad una specie di maledizione che William Brown sembra trascinarsi dietro, con l’inevitabile innamoramento per la giovane Sylvie, che si aggira praticamente nuda per il bar: “sotto la vestaglia era nuda, e ai piedi aveva solo dei sandali”. E questa continua fuga di William, Don Giovanni piccolo borghese, non avrebbe forse fine, se qualcuno non decidesse di ucciderlo.

… il desiderio di Don Giovanni – nella sua fuga incessante – porta alla dissipazione e alla morte. Lo sanno bene certe isteriche che alla fine della loro vita restano con un pugno di mosche: hanno sempre obbedito alla legge del desiderio d’Altro vivendo in una perenne inconcludenza.
Il desiderio d’Altro accompagna come un’ombra la dimensione vacua dell’utopia. Quello che c’è non è mai sufficiente, non è mai abbastanza; il tempo della soddisfazione non è mai “adesso”. La soddisfazione è attesa altrove, non è mai qui, non è mai ora… Il rischio del desiderio utopico è, infatti, quello di non realizzarsi mai, di differire perennemente la sua soddisfazione, di restare perennemente insoddisfatto. Il fantasma isterico che sostiene questo differimento perpetuo è che la realizzazione del desiderio coinciderebbe con la sua stessa morte.

(Massimo Recalcati, Ritratti del desiderio, Raffaello Cortina Editore 2012)

Il tema del doppio

Al tema della fuga è strettamente collegato quello del doppio, motivo antichissimo che risale addirittura alla letteratura greca. Euripide, nella sua tragedia Elena, racconta di come gli dei creino con una nuvola un duplicato fantasma di Elena stessa. Il genio di Euripide si inventa una storia alternativa a quella conosciuta, e si immagina che la virtuosa Elena viva nascosta in una reggia egiziana, mentre il suo fantasma, creato dagli dei capricciosi, è stato mandato a Troia con Paride, al solo scopo di provocare la guerra.
È in Europa, però, tra Ottocento e Novecento, che questo motivo assume il significato più profondo di crisi esistenziale e conseguente scissione della personalità. In quegli anni, Sigismund Freud (1856 – 1939) teorizza che la vita psichica dell’uomo si muove in un delicato equilibrio tra gli impulsi istintivi e irrazionali dell’Es, la personalità equilibrante dell’Io e le esigenze morali e sociali del Super-Io. La personalità è così divisa tra l’occorrenza di rispettare le norme morali e civili e l’istinto di soddisfare il proprio piacere.
C’è un film che, forse meglio di ogni altra opera che conosco, riesce a dare l’idea di quanto teorizzato da Freud, si tratta di La donna dai tre volti(Sull’influenza di Freud sul cinema classico americano si veda il capitolo Freud and Classical Hollywood, in David Greven, Representations of Femininity in American Genre Cinema. The Woman’s Film, Film Noir, and Modern Horror, PALGRAVE MACMILLAN, 2011). Il film fu diretto da Nunnally Johnson nel 1957, e l’attrice Joanne Woodward per la sua triplice interpretazione fu premiata con l’Oscar. Il film era tratto dal libro The three Faces of Eve di Corbett Thigpen e Hervey Cleckley, ispirato ad una storia vera di DPM, Disturbo da Personalità Multipla. Gli autori descrissero il caso di una paziente che presentava tre distinte personalità: Eve White, una donna sposata e repressa, Eve Black, al contrario molto disinibita e ribelle, e alla fine Jane. Le tre personalità erano emerse dopo un evento traumatico accaduto durante la sua infanzia. Jane è l’ultima personalità ad emergere durante la terapia, ed è quella che sconfigge le altre due, riuscendo a farle convergere verso un ideale punto d’equilibrio (Cfr. Geoff Rolls, Casi classici della psicologia, Springer Verlag 2011, pp. 153-154). Nunnally Johnson, ricordato soprattutto per essere stato lo sceneggiatore di Furore e La donna del ritratto di Fritz Lang, spettacolarizza forse un po’ troppo il libro di Corbett Thigpen e Hervey Cleckley, ma il film merita di essere visto per l’interpretazione della giovane e poliedrica Joanne Woodward.

Nel romanzo Liberty Bar, troviamo addirittura due esempi di doppio:

  • quello di William Brown che, come abbiamo visto, cerca di vivere un’esistenza diversa da quella precedente;
  • quello di Maigret che somiglia alla vittima, e che vede il commissario arrivare a conoscere meglio se stesso, indagando proprio la storia e la vita di Brown.

Il tema del doppio risulta, infatti, molto più complesso di quanto possa apparire ad un primo superficiale esame. Massimo Fusillo, il maggiore studioso italiano del doppio, nel suo notevole e stimolante saggio L’altro e lo stesso, individua tutta una serie “potenzialmente illimitata di temi e di motivi parenti, che sono tutte variazioni su di un tema-base: una sorta di “arcitema” che possiamo chiamare l’identità sdoppiata” (Cfr.Massimo Fusillo, L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio, Mucchi editore 2012, pp. 27-35). Esistono, in ogni modo, alcune costanti cui gli artisti sembrano più legati: il terrore della vecchiaia, della malattia e della morte; il bisogno di vivere esperienze proibite dalla morale corrente. William Brown conduce, infatti,una specie di doppia vita: il suo preferire l’oscuro e angusto Liberty Bar alla villa di Antibes ricorda Dorian Gray che frequenta di notte locali equivoci, o Mister Hyde, il lato oscuro del dottor Jekyll, che si addentra nei quartieri più malfamati di Londra.
Simenon, in gioventù, fu un appassionato lettore delle opere di Stevenson. Nel racconto del Liberty Bar, ritroviamo non solo il personaggio (William Brown) che decide di vivere quel lato di sé che aveva represso fino a quel momento, proprio come il dottor Jekyll fa nei panni di Mr. Hyde, ma anche l’incapacità di riuscire a conciliare le due esistenze e il pericolo di frammentazione della personalità.
Brown continua, infatti, a fuggire da se stesso, ma i nuovi William, concepiti come forma di liberazione, sono in realtà schiavi delle proprie pulsioni e anche del loro passato, e alla fine sono causa della sua stessa morte, proprio come il personaggio creato da Stevenson. Nella letteratura moderna e contemporanea, il doppio è il simbolo della malattia psichica: Brown continua a creare doppi di se stesso, nella vana speranza di liberarsi dalle catene che egli stesso si è imposto, non intuendo che il problema sta dentro di lui. Brown, infatti, desidera altre donne e un’esistenza più libera, ma sente anche il bisogno di punti fermi che gli diano delle certezze. Un problema che assillò lo stesso Simenon tutta la vita: si sposò ben tre volte, ebbe numerose relazioni extra coniugali e “fuggì” (egli stesso nelle sue memorie usa il verbo “fuggire”) spesso, abbandonando le case che aveva fatto costruire con tanta fatica. Raffaele Crovi ha scritto una breve biografia su Simenon che, guarda caso, si intitola La doppia vita di Georges Simenon (in Le maschere del mistero, Passigli Editore, 2000, pp. 287-296).
Stevenson illustra in modo chiaro questo dilemma, in alcune pagine del suoLo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde:

Scegliere Hyde voleva dire por fine a innumerevoli interessi e aspirazioni e diventare, all’istante e per sempre, un essere disprezzato e solitario. La scelta poteva apparire semplice, ma occorreva mettere sulla bilancia un’altra considerazione, e cioè che Jekyll avrebbe sofferto cocentemente di questa astinenza imposta, mentre Hyde non si sarebbe neanche reso conto di quanto avrebbe perduto. Per quanto strane fossero le circostanze, i termini della controversia sono antichi quanto la storia dell’uomo. Gli stessi timori e le stesse lusinghe inducono il peccatore, tremante e, insieme, attratto, a giocare la propria sorte; e, come succede alla maggior parte dei miei simili, finii anch’io per scegliere la parte migliore di me, ma non ebbi la forza sufficiente per mantenere questa scelta.

(Robert Louis Stevenson, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, Garzanti 2014, p. 100)

Sia nei romanzi di Wilde e Stevenson che nel giallo di Simenon, il tema del doppio è connesso con quello della morte: tutti e tre i protagonisti muoiono. Questi temi sono a loro volta connessi con quello del contrasto fra la luce e l’oscurità, fra la ragione cosciente e il caos dell’istinto. Ma se, nel giallo classico, la ragione scopriva la verità, vinceva il male e illuminava l’oscurità, con i gialli di Simenon questa fiducia nella potenza della ragione si incrina: Maigret scopre i colpevoli ma, immedesimandosi in loro, comprende come egli stesso avrebbe potuto uccidere e sprofondare nel lato oscuro. L’uomo è, secondo Maigret/Simenon e parafrasando Ivan karamazov di Fëdor Dostoevskij, indifeso di fronte al male del mondo, e la sua volontà debole e incline a sbagliare. Ma se Simenon fa morire William Brown a causa del suo doppio (il suo bisogno continuo di cambiare vita e donna), come accade ai protagonisti dei romanzi di Wilde e Stevenson, con Maigret propone un’alternativa a questa fine drammatica. Maigret, infatti, pur provando una intensa attrazione per la vita di Brown,ha la capacità di integrare il suo doppio, e in questo lo scrittore belga sembra ispirarsi ad un altro grande autore, da lui molto amato in gioventù: Joseph Conrad.

Il racconto Il compagno segreto) è stato acutamente interpretato dal Guerard a livello psicologico e psicanalitico. Come Heart of Darkness è un viaggio notturno nell’inconscio, un’autoanalisi che mette alla prova la consistenza dell’io. I due antagonisti-complici (il capitano e il suo doppio) rappresentano rispettivamente il Conrad marinaio razionale rispettabile e tradizionalista (il nostro Maigret) e quello nascosto, tendenzialmente anarcoide, fuorilegge (Brown).

(Renato Oliva, Conrad: l’imperialismo imperfetto, Einaudi 1973, pp.34-35 – le parentesi sono mie naturalmente)

Nei romanzi di Simenon, il tema del doppio è spesso presente ma non in modo esplicito, come invece nel caso del Liberty Bar. Qui, fin dall’inizio, Maigret si accorge della sua somiglianza con William Brown, e durante le indagini il coinvolgimento psicologico del commissario arriva sino all’immedesimazione con la figura del vecchio commerciante di lana.
L’indagine e la scoperta della verità assumono una rilevanza secondaria rispetto alla fascinazione che Maigret, ad un certo punto, prova nei confronti del bar e delle persone vicine a Brown, nei suoi ultimi giorni di vita. E sono proprio Jaja, la padrona del bar, una donna piena di passione e di tenerezza, e la giovane e fragile prostituta Sylvie, insieme con l’atmosfera rarefatta e protettiva del bar ad affascinare Maigret. In quel luogo, distante dal frastuono frenetico e assordante del mondo, il commissario si sente a suo agio e intuisce il motivo delle visite ricorrenti di Brown. Anch’egli, come la vittima, inizia a bere con Jaja fino a dimenticare e a stordirsi, e a sbirciare il corpo giovane e nudo della disinibita Sylvie.
E sarà proprio questo suo calarsi nell’atmosfera e identificarsi con Brown a condurre, alla fine, il commissario a comprendere i legami e i sentimenti che si muovono sotto la superficie calma e onirica che avvolge il piccolo bar, ma che mano a mano iniziano ad affiorare in modo inquietante sino al rabbioso e violento finale. Maigret, penetrando a fondo nell’esistenza delle vittime e dei colpevoli, ricalcando i loro passi, vivendo intensamente il loro ambiente, riesce a fondersi con essi, a provare quasi le loro stesse emozioni. Capita così che, spesso, alla fine delle indagini, la violenza venga quasi giustificata, perché determinata dall’ambiente e dalle spinte esterne.
Simenon, durante la sua giovinezza, fu un appassionato lettore di Conrad e lesse sicuramente Il compagno segreto, un racconto che simboleggia una specie di viaggio nell’inconscio, in cui il protagonista incontra il proprio doppio, un sosia che consente al giovane capitano di affrontare le proprie paure e di superarle: “il capitano raggiungerà alla fine quella padronanza di sé che gli manca attraverso l’identificazione con il proprio doppio e attraverso l’introiezione di parti del suo sé” (Cfr.Massimo Fusillo, L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio, Mucchi editore 2012, p. 226). E come in Il compagno segreto, l’incontro avviene nell’oscurità della notte e nell’angusto vano della cabina del capitano, simbolo delle “zone inconsce della psiche” (Cfr. Fusillo, p. 226), così Maigret si immerge nell’atmosfera cupa e indistinta del Liberty Bar. Nel romanzo di Simenon non manca neppure il motivo del “ritratto” (che può essere di volta in volta il dipinto, lo specchio o la foto), rappresentato dalla fotografia di Brown, mentre in Il compagno segreto è lo specchio:

Nessuno si era chiesto quali fossero stati, da vivo, i suoi pensieri, la sua mentalità, o le sue sofferenze…Ed ora, guardando la fotografia, Maigret si sentiva turbato, perché aveva l’impressione di conoscere Brown … c’era qualcosa nell’aspetto, nell’espressione, che ricordava proprio Maigret. Quel modo di tenere le spalle un po’ curve… Quello sguardo esageratamente calmo… Quella piega delle labbra bonaria e al tempo stesso ironica…
Non era più un cadavere di nome Brown… Era un uomo che il commissario aveva voglia di conoscere meglio e che lo incuriosiva.

Simenon non perde occasione per farci visualizzare questo processo di identificazione, che sta subendo Maigret, e soprattutto per farci comprendere che non si tratta solo di un’impressione delcommissario; anche Jaja, mentre beve con lui, si accorge di quanto la vittima e Maigret si assomigliano, accentuando così l’identificazione del doppio:

Aveva fatto troppo onore alla bottiglia. Mentre guardava Maigret, le si inumidirono gli occhi, e la bocca infantile fece una smorfia che preannunciava le lacrime.
«Lei mi fa venire in mente William… Quello era il suo posto… Anche lui quando mangiava posava la pipa vicino al piatto… Aveva le spalle come le sue… Sa che lei gli assomiglia?».
Si limitò ad asciugarsi gli occhi, senza piangere.

Questa fascinazione che Maigret prova per Brown, per questo personaggio che “trasgredisce i canoni borghesi e oltrepassa i limiti del sociale” (Cfr. Fusillo, p. 232), proprio come il personaggio di Leggatt creato da Conrad, è la prova che Brown incarna il represso di Maigret. In Simenon come in Conrad, il doppio “è una figura indispensabile al processo di costruzione dell’IO: è attraverso l’identificazione con l’altro che si forma l’identità … Un assorbimento che vuole essere sublimazione, ma che mostra sino alla fine una forte empatia per la trasgressione e per il represso …” (Cfr. Fusillo, p. 238).

Curiosità
La letteratura popolare, una “trappola tesa ai danni di anime ingenue e fantasiose” … Simenon e Maigret, il suo doppio, a caccia di assassini veri …

Nel racconto The Mystery of Marie Roget di Poe, Dupin risolve senza muoversi di casa e basandosi sulle testimonianze riportate dai giornali, il mistero della scomparsa di una commessa di profumeria. Per questo racconto, Poe si ispirò a un fatto accaduto realmente a New York nel 1841.

In una delle note aggiunte all’edizione in volume dei suoi Racconti (Tales, 1845), Poe ha annotato di aver «effettivamente risolto il caso reale» con notevole anticipo rispetto alla polizia. Per oltre un secolo, tutti gli hanno creduto, ma recenti studi americani hanno dimostrato che, in realtà, il caso di Mary Rogers non è mai stato chiarito, malgrado le brillanti deduzioni di Poe.

(Stefano Benvenuti e Gianni Rizzoni, Il romanzo giallo. Storia, autori e personaggi, edizioni Club degli Editori, 1979, pp. 18-19)

Simenon cercò di imitare il grande Edgar Allan Poe, quando a Parigi esplose “l’affaire Stavisky”, da cui, nel 1974, il regista Alain Resnais trasse il film Stavisky il grande truffatore, con protagonista Jean-Paul Belmondo. Lo scandalo era iniziato nel 1932, quando fu arrestato il direttore del Credit Municipal di Bayonne accusato di frode ed emissione di falsi buoni al portatore, per duecento milioni di franchi. Il burattinaio, però, si chiamava Alexandre Stavisky, detto “Monsieur Serge”, un ebreo di origine russa nato a Kiev nel 1886. Non staremo ora a riportare qui tutto ciò che accadde all’epoca, ciò che importa è che si trattò di uno scandalo economico e politico che coinvolse politici e alti funzionari statali e che, nel gennaio del 1934, la polizia trovò Stavisky morto suicida nel suo chalet di Chamonix. Una versione poco credibile, e molti erano convinti che fosse stato ucciso per impedirgli di parlare. La Francia fu sconvolta da rivolte di piazza e da scioperi, mentre l’opinione pubblica voleva che i nomi dei colpevoli venissero a galla. Il 20 febbraio 1934, fu rinvenuto il cadavere di Albert Prince, magistrato della Corte d’appello, incaricato di indagare sulla morte di Alexandre Stavisky. Fu allora che Jean Prouvost, il “padrone” del Paris-Soir, convocò Simenon, per affidargli l’inchiesta o meglio per affidarla al commissario Maigret.
Simenon si lasciò convincere, sedotto dalla gloria, dal denaro e anche perché Prouvost gli promise larghi mezzi per risolvere il caso prima degli inquirenti.
A Carlo Rim (giornalista del magazine Marianne), che lo accompagnava durante le indagini, Simenon disse:

Vedi, è come se fossimo dentro a un romanzo. L’unica cosa che si può fare è chiedere a un personaggio del romanzo di condurre l’inchiesta. Se ci pensi bene è la cosa più naturale. Trent’anni fa si sarebbero rivolti a Sherlock Holmes. Oggi chiamano Maigret

(Citato in Pierre Assouline, Georges Simenon. Una biografia, Edizioni Odoya 2014, p. 165).

Questa dichiarazione di Simenon è illuminante sull’errore madornale in cui incorse, finendo per confondere realtà e avventura romanzesca, proprio ciò di cui aveva accusato alcuni personaggi nei suoi romanzi. Ne Il pazzo di Bergerac, una cameriera dichiara a Maigret di essere stata assalita dall’assassino, ma il suo fidanzato sostiene che la sua testimonianza non è attendibile, perché la ragazza sogna molto e legge “romanzi”, e dopo qualche giorno “crede che sia successo davvero”. Si pensi anche al personaggio di Heurtin di Maigret e una vita in gioco: “fattorino a seicento franchi al mese, soffre e si rifugia nei sogni, divora romanzi popolari, frequenta cinematografi, immagina avventure meravigliose” (Maigret e una vita in gioco, edizione Oscar Mondadori, 1972).
Questa critica alla letteratura popolare, vista come una “trappola tesa ai danni di anime ingenue e fantasiose” (Cfr. Valentino Cecchetti, Generi della letteratura popolare. Feuilleton, fascicoli, fotoromanzi in Italia da 1870 ad oggi, Tunué – 2011, p. 12), fu ispirata a Simenon quasi certamente dalla lettura di Madame Bovary, il capolavoro di Flaubert, in cui troviamo la protagonista “totalmente perduta nell’immaginario, lettrice avidissima di riviste femminili e resoconti mondani, nonché di autori come Balzac, Eugène Sue e George Sand” (Cfr. Agosti Stefano, Il romanzo francese dell’Ottocento. Lingue forme genealogia, Il Mulino – 2010, p. 166).
In ogni modo, Simenon si convinse di essere Maigret e di potere, come la sua creatura, scoprire la verità dietro gli omicidi de “l’affaire Stavisky”. Lo scrittore belga confuse realtà e finzione, ma soprattutto dimenticò un fatto importante: il suo Maigret riusciva a scoprire i colpevoli, in modo improvviso e quasi senza motivo, egli non intuiva ma “indovinava” la soluzione, perché già la conosceva. Maigret/Simenon scriveva la trama ed era il deus ex machina del dramma poliziesco, quindi lo poteva piegare a suo piacere nella direzione che egli preferiva. Simenon, nell’affrontare “l’affaire Stavisky”, un’indagine vera, fece la stessa cosa, cerco di piegare gli avvenimenti reali alle sue congetture e “finì col trovare l’uomo che cercava, colui che sapeva tutto sul caso, e che era pronto a vuotare il sacco … Simenon si bevve tutta la storia. Il Milieu e la polizia giudiziaria ridono ancora… non si fece troppe domande sull’attendibilità della sua fonte di informazioni. Le confidenze del Barone avevano confermato la sua idea iniziale …” (Cfr. Pierre Assouline, Georges Simenon. Una biografia, Edizioni Odoya 2014, p. 166)
Non solo Simenon non scoprì i colpevoli, ma i suoi articoli furono oggetto di critiche e la sua persona di minacce da parte anche della mala francese. Il metodo Maigret aveva fallito su tutta la linea (per informazioni dettagliate, si consiglia la lettura di Pierre Assouline, Georges Simenon. Una biografia, Edizioni Odoya 2014, pp. 161-172).
Se, nel 1934, Simenon si illuse di potersi trasformare nella sua creatura Maigret, nel 1951, accadde l’esatto contrario. Dina Lentini lo sottolinea nel suo bel saggio Il romanzo poliziesco contemporaneo tra tensione morale e impegno sociale:

“… devo dire che Simenon è uno dei pochissimi scrittori ad avere non solo amato il suo personaggio protagonista, ma ad aver stabilito con lui un rapporto di condivisione e di amicizia, quella vera che si alimenta con le critiche … In genere gli autori di “serie” finiscono per costruire un rapporto speciale proprio con il protagonista dei loro racconti o romanzi … per cui nella finzione letteraria il personaggio protagonista, anche quello in apparenza più distante dalla personalità del suo autore, finisce per esserne in qualche modo sempre l’alter ego. Simenon va ben oltre: arriva a scrivere un romanzo nel quale il ruolo di scrittore e personaggio sono invertiti e Maigret può tranquillamente raccontare e inventare Simenon ironizzando sulle sue illusioni e debolezze …”

La Lentini si riferisce al fatto che lo scambio di identità tra Maigret e Simenon arrivò all’estremo, quando nel 1951 venne pubblicato Le memorie di Maigret, opera in cui il doppio è talmente palese che Maigret, raccontando la propria biografia, affronta anche il rapporto esistente tra lui (la creatura) e lo scrittore che lo ha reso famoso (il suo creatore). Creatura e creatore si confondono in un gioco di specchi senza fine, visto che l’autore reale del libro è Simenon …

Tutti i brani del Liberty Bar sono tratti dall’edizione Adelphi, collana gli “Adelphi – Le inchieste di Maigret” – traduzione di Ida Sassi.

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Liberty Bar
  • Simenon, Georges (Autore)

Articolo protocollato da Alessandro Bullo

Alessandro Bullo è nato a Venezia. Si è laureato in lettere con indirizzo artistico, mantenendosi con mestieri occasionali; dopo la laurea ha lavorato per alcuni anni presso i Beni Culturali e poi per la Questura di Venezia. Successivamente ha vissuto per quasi dieci anni a Desenzano del Garda per necessità di lavoro. Attualmente vive a Venezia e lavora come responsabile informatico per un’importante ditta italiana. Sue passioni: Venezia, il cinema noir, leggere, scrivere. Autori preferiti: Dino Buzzati, Charles Bukovski, Henry Miller. Registi preferiti: Elia Kazan e Alfred Joseph Hitchcock. È arrivato per due volte in finale al premio Tedeschi e una al premio Urania. Nel 2012 con “La laguna degli specchi” (pubblicato sotto lo pseudonimo Drosan Lulob) è stato tra i vincitori del concorso “Io scrittore”.

Alessandro Bullo ha scritto 66 articoli: